[Storia delle Cese n.17]
da Osvaldo e Roberto Cipollone
Padre Antonio Tchang era un francescano nato in Cina nel 1911. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu nominato cappellano di un campo di internamento e nel 1941 ricevette dalla Santa Sede l’incarico di assistente spirituale del campo di Isola del Gran Sasso, in provincia di Teramo, dove tanti cinesi erano rinchiusi in una struttura situata vicino al santuario di San Gabriele dell’Addolorata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre anche il campo di Isola fu sconvolto dagli eventi e il santuario di San Gabriele divenne luogo di accoglienza per i soldati ed i prigionieri alleati in cerca di rifugio. Il frate francescano riuscì ad aiutare moltissimi di loro senza farsi scoprire dai tedeschi che gli davano la caccia. Questi, però, gli tesero una trappola e il 27 novembre 1943 gli si presentarono vestiti da inglesi. Il frate aveva intuito il pericolo, ma cadde comunque nel tranello e venne arrestato. Perquisita la sua cella, i militari recuperarono una radio, una macchina fotografica e una pistola. Il ritrovamento della rivoltella, in particolare, fu determinante per l’accusa e la conseguente condanna. Padre Antonio fu internato dapprima a Teramo, poi a L’Aquila ed infine ad Avezzano. Posto davanti al plotone di esecuzione nel cortile del carcere di Avezzano, si salvò grazie al bombardamento del campo di detenzione da parte degli aerei inglesi. Il frate approfittò del momento per darsi alla fuga, riacquistando la libertà proprio mentre era davanti al plotone d’esecuzione.
Nell’immediato venne aiutato da monsignor Franco Michetti che lo fece sistemare presso un’abitazione alla periferia di Avezzano. Qui venne accolto, rifocillato e vestito con abiti da contadino. Ricevuta poi in dotazione una zappa, se la mise in spalla e s’incamminò percorrendo le pendici del Monte Salviano, in direzione di Cappelle. Alla sera addentrò nella boscaglia e si mise a dormire coprendosi con arbusti, foglie e sterpaglia. All’alba affrontò la china del monte e, giunto sulla sommità, cominciò a camminare carponi, zigzagando tra gli arbusti. Qualche minuto dopo i suoi movimenti vennero intercettati da due pastorelli di Cese che si trovavano a guardia delle proprie greggi in prossimità di Monte Cimarania. Quando questi iniziarono a richiamare la sua attenzione con i propri fischi, il fuggitivo si bloccò, così quelli presero a chiamarlo ad alta voce: «Chi sei, dove vai?». Il fuggiasco si alzò e i pastorelli, notata la sagoma minuta, gli inviarono altri segnali agitando mani e bastoni. Solo quando i cani pastore smisero di abbaiare, il forestiero si avvicinò. Fra i tre si respirò subito cordialità, tanto che poco dopo consumarono insieme una frugale colazione a base di pane e formaggio. Dopo gli approcci di circostanza, Umberto ed Enrico Cipollone – questi i nomi dei pastorelli – invitarono Padre Antonio a scendere con loro in paese. Era il 16 gennaio del 1944, giorno della vigilia di S. Antonio, suo onomastico, e Padre Antonio venne ospitato presso l’abitazione di Luciano (padre di Umberto), situata nella zona nord del paese.
In quei giorni il frate si sistemò nella stanza di Mario e Peppino, i figli della coppia che erano in forza all’Esercito Italiano. Era lì che leggeva, mangiava e pregava. Qualche isolato più in là, nella casa dello “Spazzacamino”, risiedeva un ufficiale tedesco; una persona considerata molto a modo. Fu questi a confidare l’imminente perquisizione della casa dove risiedeva il cinese. Messo in guardia, Luciano consigliò al ricercato di traslocare in un altro luogo. Recuperati quindi un materasso, un cuscino e delle coperte, lo accompagnò alle pendici del monte, proprio vicino a casa sua. In mezzo ai querceti c’era un anfratto naturale nascosto tra piante e rocce. Preparato un giaciglio di foglie secche e di paglia, vi sistemarono il materasso; raccolti poi rami ed arbusti, Luciano ostruì il rifugio mimetizzandolo con la vegetazione. Il giorno dopo, di primo mattino, i tedeschi bussarono alla porta della sua abitazione e, una volta dentro, perquisirono tutti gli spazi. Rovesciarono i letti, aprirono cassapanche ed armadi e, non trovando ospiti, vollero sapere a chi appartenessero pantaloni, giacche e indumenti maschili stipati nella stanza. I coniugi spiegarono di avere altri due figli che prestavano servizio nell’esercito, uno a Udine e l’altro in Albania. Quindi mostrarono le loro foto, e solo allora i militari si convinsero.
Tornata la calma, Padre Antonio venne fatto dormire nel rifugio di un vicino, Luchesio Marchionni. Questi abitava a pochi passi da Luciano e aveva realizzato un vano sotterraneo in casa scavando giorno e notte, per assicurare un riparo alla famiglia in caso di necessità. Per un certo periodo Padre Antonio si nascose lì, rimanendo al sicuro in quello “scantinato”, accudito e rifocillato sia dai proprietari che dai numerosi figli. Quando non era in atto il coprifuoco, Padre Antonio poteva scambiare quattro chiacchiere con Enrico e Umberto, i pastorelli che lo avevano trovato in montagna. Andava a casa loro, si intratteneva con i parenti, magari consumava un boccone, non disdegnando un bicchiere di vino locale che, seppur leggero, era appetibile e frizzantino.
Tra gli sfollati c’era a Cese un veterinario di Avezzano, il dott. Panfilo Giorgi, il quale cercava di tenersi continuamente informato sull’evolversi del conflitto. A guerra finita, fu proprio lui a scrivere un articolo su un periodico locale, con un passaggio sul frate cinese che si può sintetizzare così: «Due SS, di corsa e con i mitra spianati, mi chiesero: “Prieftr … Prieftr (prete)?”. “Si, ja … ja”, risposi subito e sicuro, indicando con la mano la strada di campagna che conduceva a Capistrello»[1]. Naturalmente l’indicazione non era veritiera, ma servì ad attuare il depistaggio con il quale il dottore cercò di allontanare i sospetti sulla famiglia che lo ospitava. Viste le pressioni che i tedeschi facevano sulla popolazione, bisognava trovare una via di fuga sicura al frate francescano. Padre Beniamino, priore del Santuario di Pietraquaria, contattò di nascosto Maria Venditti (“Maria della Fonte”), una donna nota in paese anche per la capacità di confrontarsi con i tedeschi. I due predisposero insieme un piano di fuga, d’accordo con il parroco di Cappelle che prese contatti con la Curia Romana.
Un giorno di marzo del 1944, un mezzo della Croce Rossa con targa dello Stato Pontificio percorreva le strade di Avezzano per raggiungere il paese di Ortucchio e caricare dei sacchi di patate. In quello stesso giorno Padre Antonio, camuffato, salì su un carretto che trasportava altri sacchi dello stesso prodotto e fu nascosto dal parroco Don Angelo Barbati nella canonica del paese. L’autista del mezzo, di ritorno da Ortucchio, si fermò nella piazzetta a ridosso della chiesa di Cappelle per completare il carico, ma a quanto pare non poté ripartire a causa di un’avaria. Dal racconto dei testimoni cappellesi sembra che, a quel punto, Don Angelo chiese ad una famiglia di fiducia, quella dei Pasqualoni, di ospitare il frate cinese nella loro abitazione che si trovava nei pressi della stazione ferroviaria. Padre Tchang fu così caricato su una bicicletta da Vincenzo Pasqualoni, ma nel tragitto i due si imbatterono in una pattuglia tedesca; fortunatamente, l’amicizia di Vincenzo con uno dei soldati e la prontezza del frate evitarono richieste di chiarimenti e possibili complicazioni. Per scongiurare problemi alla famiglia, tuttavia, Padre Antonio venne nuovamente riportato in canonica e Don Angelo decise di nasconderlo nell’ossario del cimitero di Cappelle per il tempo necessario alla riparazione del mezzo. Una volta risolta l’avaria, infine, Padre Tchang venne chiuso in un sacco e, nascosto tra gli altri, prese posto sul mezzo che lo portò in salvo a Roma.
Fra i tanti “ospiti” rifugiatisi a Cese c’erano indiani, rumeni, inglesi, scozzesi, marocchini e di altre nazionalità. Il frate cinese era stato uno di loro, ma aveva lasciato come segno del suo credo anche un messaggio che mantiene ancora oggi una grande valenza umana. Finita la “prigionia”, infatti, la missione del frate fu quella di aprire le porte di Assisi a tre giovani di Cese. Due di essi erano i pastorelli che lo avevano accolto: Umberto ed Enrico; a quest’ultimo, poi, si aggiunse il fratello Rocco. La provvidenza volle che i due fratelli seguissero le orme del francescano cinese prendendo i voti. A guerra finita, Padre Tchang fece ritorno nella sua Cina, dove dovette subire un’altra persecuzione. Ebbe comunque modo di far ritorno a Cese quando i due frati raggiunsero il traguardo del sacerdozio e celebrarono la prima messa alla sua presenza. Tornò nuovamente anche in occasione del proprio cinquantesimo anno di sacerdozio. In quella circostanza, dal pulpito disse: «Sono finalmente tornato tra la gente che mi ha salvato la vita, la stessa che ho avuto modo di ringraziare allora e che ringrazio ancora oggi».
[1] “Radar Abruzzo”, Avezzano marzo 1993.
<Tratto da Osvaldo e Roberto Cipollone, “Padroni di niente” (2019)>


