[Storia delle Cese n.16]
da Osvaldo Cipollone
La domenica di Pasqua un tempo era preceduta da intensi preparativi. Le donne ripulivano stoviglie, posate e casseruole strofinandovi sopra aceto, sale, cenere o sabbia bagnate. Spolveravano ogni angolo della casa e risciacquavano il corredo proprio come per le fatidiche “pulizie di Pasqua”. Preparavano, inoltre, dolci e leccornie con impasti di varia natura, servendosi naturalmente del forno pubblico. Lì cuocevano amaretti, spumette, biscotti, ciambelle e pizze (quelle “alla pala”, con l’uva passa, e quelle “dorgi”, tipo pan di spagna). Ovviamente non mancava un’ampia infornata di pane per assicurarsi sufficiente disponibilità per il periodo. Al riguardo è interessante soffermarsi anche sulle norme dettate dalla consuetudine per questa attività artigianale. Le prestazioni del forno pubblico e l’opera dell’addetto alle mansioni correlate venivano assicurate solo dopo alcuni adempimenti. Innanzitutto occorreva prenotarsi in anticipo presso la “fornara”, dichiarando ciò che si intendeva cuocere ed in quale misura. La donna, visionati il numero delle persone in lista e le relative quantità, indicava il giorno e l’ora riservati alla cottura.
Qualche tempo prima di quell’appuntamento, la committente doveva procurare la “forniglia,” ossia una fascina (solitamente) di spini. Quindi poteva cuocere prima le focacce ed in seguito il pane lievitato al punto giusto. Il forno poteva contenere fino a circa 40 pani. Dopo la cottura si provvedeva al pagamento, che avveniva per lo più in natura: solitamente ogni dieci pagnotte di pane, una veniva lasciata come compenso. Nell’ipotesi che una massaia ne cuocesse un numero minore o diverso, si annotava tale quantità e nelle successive cotture si conguagliava il pagamento. Per i biscotti, le ciambelle e gli altri dolciumi vigeva la stessa norma: ogni dieci unità, una andava all’esercente. Questo, inoltre, doveva riportare ogni introito al proprietario dello stabile; fra le due parti infatti si pattuiva una divisione dei proventi al 50%.
La convivenza tra forno pubblico e forni privati a Cese è attestata almeno dalla metà del ‘800. Negli atti dei sindaci di Avezzano si legge che “il 6.10.1827 il sindaco autorizzava l’accomodo del forno di Cese, su perizia di Giuseppe Borelli, con una spesa prevista per ducati 14,30”. Inoltre “il 15.4.1839 uno stuolo di abitanti di Cese (che contava allora 500 anime) reclamava al Ministro degli Affari Interni di Napoli contro il decurionato avezzanese che favoriva il forno pubblico contro i privati; nell’esposto, firmato tra gli altri da Antonio Marchionni, Giuseppe Pace, Matteo Torge, Serafino Bartolucci e Matteo Cipollone, si affermava che non si era interpellato l’eletto di Cese G. De Amicis e che i gestori del forno pubblico non erano esperti del mestiere”.
Al di là di tali questioni, si può dire che il forno ha sempre avuto un ruolo primario nella cucina del passato e che la sua rilevanza era accresciuta dalla solennità del momento. Il pranzo pasquale, ad esempio, era spesso chiuso dalla pizza “dorge” (tipo pan di spagna), la stessa prevista in altre occasioni importanti come i banchetti legati ai sacramenti religiosi. L’altra pizza, quella con l’uva passa, veniva cotta alla teglia di rame o alla pala, ed era utilizzata indifferentemente come dolce o in sostituzione del pane.
A questo proposito è interessante sapere che una prima traccia della pizza pasquale nel nostro territorio si ritrova addirittura nel “Censuale dei sussidi caritativi dei Marsi” del XIV secolo, dove si legge che “al tempo di Pasqua, i devoti favorivano alle Chiese ed ai Chierici uova, agnelli e le tradizionali pizze di Pasqua” (“In festo Pasce maioris, piczas octo…”). La ricetta desumibile dagli antichi ricettari, relativa alla versione “salata” – con il formaggio, prevedeva: «per 3 pizze, e una per il Padre confessore, ci vuole farina 16 libbre (5 kg), un mezzo di latte, ova 40, 3 oncie di sale (70 g.), pepe, un’oncia e mezza grasso (39 g.), 3 libbre (1 kg) di formaggio secco e 8 (2,5 kg) fresco, compreso con gli occhi, 2 fogliette d’olio (60 cl), un pizzico di zafferano dell’Aquila, e questa dose basta per 24 persone e il Padre Confessore”[1]. Il sussidio di 40 uova, in particolare, era simbolico dei 40 giorni di quaresima, preludio ad una festività attesa e ampiamente celebrata anche a tavola.
[1] Mario Di Domenico (2020).
<Rielaborato da passaggi tratti da O.Cipollone, “Un’eco di note e di passi” (2010) e “Orme di un borgo” (2002)>




