[Storia delle Cese n.90]
di Roberto e Osvaldo Cipollone
Da che mondo è mondo, tra paesi vicini sono sempre esistiti rivalità e spirito di competizione. Il tanto noto “campanilismo”[1], che affonda le proprie radici nelle più ferree divisioni medioevali legate al sistema feudale, si è tradotto e si traduce non solo in forme di esaltazione della propria realtà (soprattutto nel confronto con le altre più prossime), ma anche in antagonismi, provocazioni e bonarie canzonature. Soprattutto in passato, tuttavia, lo stesso spirito di contesa ha dato origine a vere e proprie liti, spesso alimentate da precedenti e questioni personali. In questo quadro, si può dire che Cese si sia quasi sempre dimostrato un paese pacifico e tranquillo. Il “quasi” è legato anzitutto ad alcuni episodi storici controversi, e, in tempi più recenti, alla competizione sportiva (e non solo) con i paesi vicini.
Uno dei più comuni fattori di contrasto è certamente quello dei limiti territoriali e delle questioni di confine tra abitati limitrofi. In tal senso, gli elementi storici più ricorrenti riguardano le liti con Capistrello e Corcumello (e Pagliara), legate fondamentalmente ai diritti di pascolo e di legna. Diversi sono i casi in cui è stato necessario il ricorso ad un arbitrato, soprattutto nell’800. Come documentato negli atti del Comune di Avezzano, in particolare, “l’8 luglio 1821 sorgeva una furiosa lite di confinazione tra Cese, Corcumello e Pagliara, dove era stato divelto un cippo di confine”.
Un secondo elemento di attrito è legato alle vicende del terremoto del 13 gennaio 1915. Come noto, infatti, Cese fu il paese maggiormente colpito dagli effetti del sisma (non solo nei piani palentini) e nei giorni immediatamente successivi alla catastrofe dovette purtroppo subire anche isolati episodi di sciacallaggio. Alcuni si possono ascrivere a semplici dicerie di paese, ma uno in particolare fu documentato dal ritrovamento di un baule abbandonato a breve distanza dal luogo in cui era stato trafugato; si narra, nel caso specifico, di una donna di un paese vicino che portò appunto via la cassa ipotizzando contenesse beni di valore. La stessa donna avrebbe poi aperto il baule per verificarne il contenuto e vi avrebbe trovato una persona deceduta nel terremoto. Un episodio spregevole ed ignobile, più che macabro, che plausibilmente portò con sé strascichi amari e comprensibili risentimenti. A loro dire, però, gli abitanti dei paesi vicini al nostro – colpiti in maniera meno pesante dalla catastrofe – diedero addirittura il proprio contributo ai primi interventi di soccorso; facile pensare tuttavia che tali aiuti siano passati totalmente in secondo piano rispetto a fatti esecrabili come quello citato.
Le rivalità campanilistiche si sono tradizionalmente tradotte in detti dialettali che nel tempo hanno assunto forme diverse ed a tratti discordanti. Se è vero che da noi si diceva “Capistrèjjo scapestrato non jo vidi se non sì arrivato” e “Corcuméjjo tunno tuttno, quattro case e ‘no sprofunno”, è altrettanto vero che, secondo gli altri, “alle Cese, ómmeni schiórti e femmone lèce”. Niente di nuovo, come facilmente intuibile, all’interno di un’eterna contesa basata quasi esclusivamente sul puro gusto di sfida che contrappone paesi confinanti. In tale contesto, si evidenza una certa indifferenza di Cese nei confronti di Avezzano, forse vista sempre come “altro” da sé. La leggenda a cui si fa risalire l’origine dei “focaracci” avezzanesi[2] non è molto radicata, dalla parte palentina del Salviano, ma la storica inerzia del Comune capoluogo nei confronti della frazione ha di fatto acuito il distacco che gli abitanti di Cese sentono praticamente da sempre. Scriveva qualche anno fa LoRenzo Cipollone tra “sogno” e pensieri ad alta voce: «Nù non c’entremo gnente co’ jji Avezzanesi: jo Sarviano c’ha sempre spartito. Le stalli delle Cese sò dejji Cesaroli e sò state sempre piene de vacchi dejji Cesaroli. Quii d’Avezzano ci sse sò fatti róssi có’ lo latto delle Cese»[3].
Un’immagine forte, ma che a suo modo sintetizza bene l’orgoglio e il senso d’identità cesense. Questi ultimi hanno alimentato da sempre anche la rivalità sportiva – leggasi calcistica – con i paesi vicini. Negli anni ’60 e ’70, in particolare, la squadra locale era particolarmente seguita in tutto il circondario, soprattutto nei tornei estivi organizzati dalla Federazione. “Dei quattro tornei a cui partecipò quella squadra, due si svolsero nel paese di Sante Marie, uno a Scurcola Marsicana e uno proprio a Cese. Ebbene quella compagine si aggiudicò le ultime due competizioni, sconfiggendo la Scurcola a casa propria e Cappelle a Cese”[4]. La rivalità calcistica non è mai venuta meno ed ha sempre animato sia i tornei degli adulti “all’ara” e “alla pro-loco” che le sfide tra i più giovani; queste, in particolare, hanno visto spesso uscire vincitori i ragazzi di Cese, in casa come sui campi di Scurcola, Cappelle e Corcumello. C’è da dire, a tale proposito, che a fine anni ’90 anche le ragazze di Cese hanno vinto nei tornei organizzati a Scurcola, così come un paio di squadre di pallavolo miste hanno ben figurato a Villa San Sebastiano. L’eccessiva animosità che accompagnava le competizioni di calcio e calcetto ha di fatto messo fine ai tornei con squadre “di fuori”, ma non ha frenato l’originale spirito di rivalità.
Quello stesso spirito competitivo, d’altra parte, ha animato da sempre anche le relazioni e le schermaglie amorose. Come noto, infatti, ai giovani di Cese in passato erano concesse rare occasioni di divertimento, soprattutto se agli eventi era prevista la presenza di ragazze. Capitava così che, per potersi concedere un ballo, i ragazzi uscissero dal paese avventurandosi verso quelli vicini. «Ad Antrosano, in particolare, per un certo periodo non era consentito che quelli di fuori partecipassero alle feste da ballo. In quel caso fu un diverbio tra due giovani che si contendevano la stessa ragazza ad acuire il campanilismo tra i due paesi. Gli strascichi di quell’episodio videro coinvolti anche altri giovani in veste di vendicatori e di pacieri; così, per evitare che quelli di fuori (non necessariamente e soltanto quelli di Cese) continuassero a “contattare” le ragazze del posto, gli antrosanesi issarono uno striscione alle porte del paese i cui caratteri cubitali recitavano “Vietato far l’amore ai forestieri”. Un gruppo di ragazzi, disatteso il cartello, si introdusse comunque in paese con le proprie bici per cercare di entrare ad una festa da ballo; in seguito all’affronto, però, gli stessi trovarono sulla strada del ritorno degli “invisibili” fili di ferro fissati sulle siepi che delimitavano i cigli stradali. La rovinosa caduta, i danni riportati e lo smacco subito consigliarono vendetta ad un giovane di Cese, il quale si riteneva autorizzato a frequentare Antrosano in quanto da tempo fidanzato con una ragazza del posto. Ebbene, questi, munito di un moschetto (residuato bellico) e di pallottole traccianti, pensò bene di appostarsi sulla sommità del monte comunemente chiamato “Cucuruzzo” e, attesa la notte, scaricò interi caricatori in direzione di Antrosano. Fortunatamente i colpi non procurarono danni, data la distanza, né si verificarono gesti di ritorsione o rivalsa in seguito all’episodio. Un altro “incidente” avvenne in seguito anche a Corcumello; per aver ballato con due ragazze del luogo la sera della festa di San Lorenzo, infatti, alcuni ragazzi di Cese si videro inseguiti dai coetanei del posto e furono messi in fuga a colpi di sassate. Tra i fuggitivi c’era un ragazzo che alla cintola portava una grossa pistola (sempre di provenienza bellica) e, sparando alcuni colpi in aria, dissuase gli inseguitori»[5]. Come facilmente intuibile, la “competizione amorosa” ha in realtà radici più antiche. I pastori che portavano le greggi tra “Santa Barbara” e “jo Cucuruzzo”, ad esempio, raccontavano spesso di liti furiose culminate in veri e propri scontri fisici e sassaiole con i dirimpettai di Cappelle. Alla base, oltre a ben immaginabili questioni di pascolo, c’erano di sovente interessi comuni verso le ragazze che raggiungevano la montagna per portare viveri ai pastori di Cese. Sempre a detta degli stessi, quei conflitti si risolvevano poi quasi sempre in maniera amichevole.
Lo spirito campanilistico e di competizione è giunto pressoché intatto fino a noi, alimentato anche dalla forzata convivenza sui mezzi di trasporto pubblici. Da sempre, infatti, sulle “corriere” utilizzate da studenti e lavoratori dei piani palentini si sono venute a creare tra i diversi paesi situazioni di sfida e di contrapposizione. Nella maggior parte dei casi, le stesse si sono risolte in maniera del tutto naturale, ma in qualche circostanza si sono generate vere e proprie manifestazioni di ostilità. Nel 2006, ad esempio, Antonella Cosimati raccontava così una reazione assolutamente brillante per la “conquista della corriera”: «Ebbene sì: “nù delle Cese ci semo fatti reconosce puri alla corriera”… ci siamo “battuti” però, citando rispettosamente Ghandi, con il metodo della non-violenza. Nel periodo in cui il tratto di strada Cese- Cappelle era chiuso, le corse degli autobus per Avezzano erano costrette al “doppio giro” e tutti noi di Cese, privati di una mezz’ora di sonno, alle 7:20 – come zombie – presenti alla fermata. Gli “amici” di Villa S. Sebastiano, allora, salivano solo in quattro o cinque al primo giro per occupare posti e posti per gli amici/ragazzi/quelli del secondo giro… e noi costretti a rimanere in piedi. Così, una mattina, abbiamo deciso tutti di prendere il primo autobus, quello delle 6:20 e fare due viaggi: uno verso Avezzano e, cambiato autobus, di nuovo verso Cese. Gli amici di Villa, così, salendo, sono rimasti tutti ammutoliti… e senza posto! Era TUTTO OCCUPATO! Non abbiamo dubbi, qualcuno avrà pensato: “Che pazzi…!!!”. Per noi invece è stato solo un modo simpatico per farci sentire, e per dimostrare che per ottenere qualcosa (anche solo un posto sull’autobus che non ci cambia la vita, è ovvio!), non abbiamo bisogno di modi e parole violenti… anche così, perché no, si può “COMBATTERE (contro) la guerra”[6]».
In molti casi, insomma, la goliardia, l’arguzia ed una consapevole leggerezza possono riportare le immortali rivalità alla loro dimensione naturale… sempre in attesa di una nuova schermaglia…
[1] Il termine «campanilismo» deriverebbe da un episodio aneddotico della rivalità fra due comuni limitrofi della pianura campana: San Gennaro Vesuviano e Palma Campania. Il quadrante del campanile di San Gennaro Vesuviano che volgeva a levante (cioè verso Palma Campania) fu volutamente lasciato senza orologio, proprio perché i cittadini di Palma Campania non avrebbero dovuto leggere l’orario (“Tutto cominciò con un orologio…”, in “il Giornale.it, 1.10.2009)
[2] La stessa leggenda narra di una disputa tra gli abitanti di Cese e di Avezzano, in lite per “accaparrarsi” le grazie della Vergine, con gli avezzanesi che per indurre la Madonna a rivolgersi verso il proprio lato pensarono bene di accendere i grandi falò che poi sono entrati nella tradizione della sera del 26 aprile.
[3] “La Voce delle Cese” numero 21, 23 Marzo 2008
[4] https://storiedellecese.com/2022/12/13/la-palentina-la-folgore-e-il-calcio-a-cese/
[5] Osvaldo Cipollone, “Orme di un borgo”
[6] “La Voce delle Cese” numero 8 – 24 dicembre 2006
<Rielaborato da I.Cipollone, “La Voce delle Cese” nr. 19, O.Cipollone “Don Vittorio – Abate di Cese” (2004), “Palcoscenico popolare” (2003) e ulteriori integrazioni>
