[Storia delle Cese n.76]
da Antonio Ricciardi
Il 13 novembre 1943 due ragazzi poco più che ventenni arrivano a Cese nel tentativo di fare ritorno a casa, che per uno di loro vuol dire Palermo, quasi 900 chilometri a sud. Antonio è un ufficiale dell’esercito italiano oramai disciolto, dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre, e in quanto tale è nel mirino dei soldati tedeschi. Ciononostante, due famiglie di Cese gli offrono protezione e cura. La prima è quella di Sofia Marchionni, che accoglie i due “come se anche lei ci conoscesse” e li affida poi agli zii Nazareno e Maria, che terranno Antonio in casa come un figlio per oltre sei mesi. Antonio diventerà così un “cesaròlo d’azione” e in quei mesi scriverà un diario che si rivelerà poi un’incredibile testimonianza del periodo di occupazione, tra tentativi di fuga, convivenza con le truppe nemiche e storie di ordinaria, affettuosa e dura quotidianità. Nel consegnare lo scritto ai figli di Nazareno e Maria, Antonio scriverà: «Questo stralcio di un mio diario vuole significarvi il mio verace e imperituro ricordo dei mesi che trascorsi a Cese, il calore umano e l’affettuosità familiare di papà, mamma e voi fratelli. Penso, anche se immodestamente, che questi miei ricordi possano essere utili ai ragazzi che crescono e che tanto amano il paese dei Nonni e attraverso essi – i ricordi – avere meglio cosciente conoscenza dei loro genitori – voi, miei fratelli d’elezione affettiva – quando anch’essi erano ragazzi, e della loro impareggiabile Nonna Maria. Sinceri auguri. Antonio». Una vicenda straordinaria che inizia così, in una notte di novembre del 1943, quando un certo Domenicantonio indirizza i due ragazzi verso la casa di Sofia.
13 novembre 1943
… Finalmente quella notte d’inferno finì.
Corremmo al sole per scaldarci scrollandoci la paglia di dosso. Riprendemmo il nostro cammino. Ora faceva caldo, ma eravamo contenti lo stesso. Meglio il sole che il gelo della notte. Grotti, Marano, Scurcola… Faceva già buio ed eravamo in piena campagna. Le colline scure ci circondavano. A sinistra dei binari, di quella che sapemmo poi essere la Tivoli-Avezzano, carri tedeschi con le loro armi minacciose. La prospettiva di un’altra notte di freddo ci paralizzava quasi il respiro. Lungo una doppia fila di olmi che costeggiavano un ruscello, vedemmo un uomo. Ci salutò come se ci conoscesse.
«Mi chiamo Domenicantonio – si presentò – andate avanti per questo sentiero. Alle prime case chiedete di Sofia». Ci strinse la mano e proseguì per la sua strada. Noi seguimmo il sentiero, raggiungemmo le prime case, ma non erano case, erano stalle. Poi scorgemmo una luce filtrare attraverso una porta socchiusa. Era una casa. Bussammo. Una donna ci venne ad aprire. Era ancora giovane, ma magra, patita; stringeva in braccio un bimbo di due anni circa. Il bambino ci sorrise, gli feci una carezza.
«Si chiama Mario», fece la donna. «Ci manda Domenicantonio, cerchiamo la signora Sofia», le dicemmo. «Sofia sono io». Ci fece entrare. Ci accolse come se anche lei ci conoscesse. Forse eravamo capitati in un paese incantato dove sembrava che eravamo attesi da tempo. Molto meno favoleggiante, Sofia ci fece sedere presso il camino dove il fuoco scoppiettava allegro. Anche le figlie si presentarono: «Domenica, Valentina, Anna, Tilde». Nonna Domenica, la suocera, ci disse che la minestra era quasi pronta. Intanto Sofia uscì dopo aver affidato il bambino ad Anna, la figlia maggiore. Sapemmo che il capo famiglia era prigioniero in India e si chiamava Salvatore come il mio compagno di avventura. Intanto nonna Domenica scodellò la minestra e mangiammo tutti insieme.
«Non aspettiamo la signora Sofia?», osservai. «Ora torna, intanto mangia», mi rispose l’anziana donna. Sofia ritornò poco dopo. Non era sola. Era accompagnata da Maria. In seguito ebbi modo di conoscerla come grande donna, indimenticabile, impareggiabile, meravigliosa Maria. Lei mi guardò e si mise a piangere. La bontà, la semplicità, la logica quasi infantile di Maria ancora mi commuovono. Ascoltò la mia odissea e quella di Salvatore tergendosi una lacrima ogni tanto, e dando in esclamazioni:
«Povero figlio!… Povera creatura!».
Venne anche Nazareno, suo marito e zio paterno (sic) di Sofia. Si capiva subito che era un brav’uomo, dal cuore generoso e dal carattere forte. Parlammo a lungo, bevemmo il vino fatto in casa mentre il fuoco del camino ci scaldava ripagandoci del freddo che patimmo la notte precedente. Maria era sparita. Ritornò poco dopo con un paio di scarpe, di quelle in dotazione agli avieri.
«Provale», mi disse. «Per fare che? Mica posso pagarle?». «Provale. Vedi se ti stanno bene». Me le provai. Lei prese i sandali rotti e fuori uso e li mostrò agli altri: «Hai camminato con questi?» e si asciugò un’altra lacrima. «Ti vanno bene le scarpe?». Mi andavano proprio bene. Sospirò sollevata e mi sorrise col suo buon viso così umano, così caldo … Feci per togliermi le scarpe; erano nuove, non volevo maltrattargliele.
«Che fai te le togli?», mi fece Nazareno. «E come faccio a tenerle? Come le pago?». «Che c’è bisogno di pagarle?», intervenne Maria. «Te le ho portate per metterle, non per averle pagate. Voialtri delle grandi città volete sempre pagare tutto».
Di Salvatore non si occuparono molto, forse perché aveva dei robusti scarponi o forse perché lo sentivano contadino come loro. «Stanotte dormirete nella stalla», ci disse Sofia col suo sorriso castigato, triste, per la mancanza di un uomo in casa. «Domani … Domani dobbiamo proseguire», la interruppi. «Non posso accettarle le sue scarpe», dissi rivolto nuovamente a Maria. «Dove vorreste andare? – intervenne Nazareno – Per questa notte dormirete nella stalla di Sofia che è qui accanto; domani tu verrai a casa nostra», disse rivolto a me.
«Ti prepareremo la stanza e starai con noi. Non c’è possibilità di proseguire. Da qui in avanti ci sono i Tedeschi in tutti i paesi … Ci sono degli altri ragazzi come voi alloggiati nelle famiglie». «Ma …» «Non ci sono ma …». Nazareno fece la voce seria, anche se sorrideva. «È impossibile proseguire, almeno per ora. Poi, poi si vedrà. Intanto potremmo avere altre notizie …».
Sofia sembrò giustificarsi quando ci disse che ci faceva dormire nella stalla perché la sua casa non era molto grande, però ci dava delle lenzuola e coperte. Volli protestare mentre la ringraziavo dicendo che sarebbero state sufficienti le sole coperte. Niente. Le figlie avevano già sistemati i lenzuoli e le coperte nella stalla accanto, dove tenevano le pecore. Quella notte ci sembrò di ricominciare a vivere. L’indomani, 14 novembre mi trasferii nella casa di Nazareno. Venne Maria a prendermi. Insieme attraversammo il paese e la gente ci guardava, sapevano già chi fossi; mi salutavano e Maria sembrava felice di avere anche lei un ragazzo da ospitare e proteggere.
In casa non mi sentii estraneo. I figli: Giuseppina di sedici anni, Federico di quattordici, Pia e Lina rispettivamente di dodici e dieci, mi furono subito amici. Era l’ora del pranzo. Mangiammo polenta condita con formaggio fresco e burroso che Maria faceva da sé; morbido e dolce come la ricotta. Seppi che c’era un altro figliolo, Giovannino di venti anni, che era andato con una squadra di partigiani. Maria mi mostrò la mia camera e mi ordinò di cambiarmi la biancheria – o meglio di mettermi quella che mi aveva preparata lei, compresa la maglia di lana, perché ciò che avevo addosso faceva pietà. E cominciò quella che chiamo la mia nuova vita. Il paese era piccolo, circa mille anime, tutte con la stessa bontà e generosità. C’era la chiesa madre chiusa per restauro. I lavori erano stati interrotti per la guerra e le funzioni venivano officiate in una cappella nelle vicinanze delle case popolari. C’era un unico bar – rivendita – alimentari e vini tenuto dal fratello di Maria, Raffaele; inoltre l’ufficio postale e la tabaccheria. Mi ambientai subito. Feci amicizia coi ragazzi e con le ragazze e seppi che quasi tutte le famiglie avevano ragazzi ospitati. Vi erano pure degli ufficiali inglesi ed alcuni neri di un campo di concentramento di Avezzano sciolto all’armistizio dell’8 settembre. Molti altri si erano riparati in paese e la gente del posto li teneva nascosti.
Al mattino Nazareno e Maria andavano in campagna e si portavano Federico. In casa rimanevamo io e le ragazze. Pia aveva finito le elementari e doveva prepararsi per gli esami di ammissione. Mi offersi di prepararla. Così cominciò il mio ruolo di insegnante. A lei si unirono delle sue cugine e amichette: erano tutte diligenti e l’esperienza fu fortunata. Ogni tanto veniva Vincenzino, un altro fratello di Maria che in pratica aveva allevato lei perché rimasti orfani nel terremoto del 1915. Maria gli offriva un bicchiere di vino e gli chiedeva quando si decidesse a sposarsi. Si fermava a chiacchierare e mi offriva un paio di sigarette. Quello che facesse di preciso non lo seppi mai. Era sempre ben vestito, sempre fornito di sigarette, era amico dei Tedeschi, ma nello stesso tempo era amico di tutti i ragazzi ospiti nascosti e li aiutava. Era una specie di cuscinetto tra loro, noi e la gente del paese. La sua mediazione, infatti, si rivelò fortunata in diverse occasioni. Una mattina comparve Giovannino. Lo vidi dalla finestra a chiacchierare con altri ragazzi. Lo riconobbi dalle fotografie che mi avevano mostrato in casa. Chiamai Giuseppina che sfaccendava nelle camere superiori. Gli altri, comprese le ragazze, erano con i genitori in campagna.
«Non è Giovannino, quello?», le chiesi quando comparve sulle scale. «Dov’è?». «Guarda lì fuori». Si affacciò. Era proprio lui. Lo chiamò. Quello non si mosse. Rimase a chiacchierare coi ragazzi. Mi fece piuttosto impressione; una sensazione di freddezza nei rapporti con la famiglia. Quando gli fu comodo venne in casa. Entrò e mi salutò senza alcuna sorpresa di trovarmi nella sua casa. Giuseppina gli disse: «Sei tornato» e basta. Come se non fosse mancato per più di due mesi senza dare notizie. Anche alla sera, quando i suoi tornarono dalla campagna, non ci furono abbracci, né domande. Solo in seguito, nei mesi che trascorsi in casa, capii e potei comprendere Nazareno. Lui non imponeva mai la sua volontà né alla moglie né ai figli. Dava solo consigli. Ad esempio: Giovannino era voluto andare in convento come seminarista, il padre lo aveva accontentato. Da grandicello era venuto via dal convento e a diciotto anni si era arruolato nella guardia di finanza. Qualche tempo dopo aveva lasciato il Corpo ed era tornato a casa. Il padre non lo aveva mai contrastato. «I figli devono scegliere la loro strada da soli», diceva. Giovannino non aveva voluto studiare ed era passato da un’ispirazione all’altra. Giuseppina studiava alle magistrali, in un collegio di Roma, da dove sarebbe tornata alla fine della guerra. Federico frequentava il ginnasio ad Avezzano, ma era svogliato ed irrequieto. Pia, come già detto, si preparava agli esami di ammissione e Lina, la più piccola, faceva la terza elementare. Anche Giovannino era irrequieto e suscettibile sempre di nuove iniziative. Nazareno lo lasciava fare, consigliandolo, mai imponendosi. Tutto ciò era molto bello e democratico, ma sulle prime mi fece impressione.
Peppino era figlio di Assunta; il secondo di una nidiata di figlioli che degradavano in età con un intervallo di circa due anni l’uno dall’altro. Era un ragazzo magrissimo, biondo, molto fine. Prendemmo amicizia, specialmente dopo il ritorno di Giovannino. Aveva frequentato il ginnasio che aveva dovuto interrompere per precarietà familiari. Era molto intelligente e volenteroso. Unica sua ricchezza: una chitarra. Passavamo il tempo a strimpellarla e a cantare. Insieme componemmo un’Ave Maria che non ebbe mai la fortuna di essere suonata all’armonium della chiesa. Il parroco comunque ci reclutava per cantare alle funzioni. Dico “ci” reclutava perché con me non faceva differenza con gli altri ragazzi del luogo: ero considerato come un componente della famiglia di Nazareno, ero divenuto uno di loro. Don Vittorio era un buon prete, di carattere piuttosto fiero, ma buono d’animo; uno di quei preti buoni come pochi ne ho conosciuti. Il tempo passava. Tra le lezioni a Pia e le sue compagne, le strimpellate con la chitarra e le cantate in chiesa, il tempo scorreva mentre l’inverno si avvicinava.
<Estratto da O. e R. Cipollone, “Padroni di niente” (2019). Foto tratte da www.antenatidellecese.it >


