[Storia delle Cese n.49]
di Roberto Cipollone
Anno del Signore 1509. Sullo scranno papale siede Giulio II, grande mecenate noto alle cronache come il “Papa terribile”. Sempre a Roma, nella canonica di San Lorenzo in Damaso, il più illustre umanista europeo, Erasmo da Rotterdam, va a visitare un professore universitario e latinista nato 68 anni prima nel piccolo borgo di Cese, in Abruzzo. Il suo nome è Pietro Marso.
Pietro era nato a Cese il 30 ottobre 1441; iniziato alla vita ecclesiastica, si era trasferito a Roma in età piuttosto giovane. Lì era stato introdotto nella celebre accademia umanistica sorta attorno alla figura di Pomponio Leto, riuscendo in breve ad entrare nelle grazie dei maggiori accademici (Domizio Calderini e Giovanni Argiropulo) e delle più influenti famiglie romane. Circostanze, queste, che assieme alle indiscusse doti culturali gli avevano aperto le porte dello Studium Urbis prima e dell’Università di Bologna poi. Dopo una breve esperienza mantovana presso i signori Gonzaga, Pietro era tornato a Roma per riprendere l’insegnamento alla “Sapienza”, e sviluppare parallelamente il proprio interesse e l’attitudine all’arte oratoria.
Erasmo, invece, nato a Rotterdam il 27 o 28 ottobre 1466, era stato iniziato alla vita monastica agostiniana ma aveva più volte manifestato la propria lontananza dalla vita monacale. Dopo aver approfondito il proprio percorso di studi a Parigi ed in Inghilterra, nel 1506 si era trasferito in Italia, laureandosi in teologia a Torino e rimanendo per lungo tempo a Venezia. Nel 1509, a 43 anni, era giunto a Roma, dove aveva conosciuto i cardinali Domenico Grimani e Giovanni de’ Medici e gli umanisti Raffaele Riario ed Egidio di Viterbo, assistendo anche ad alcune orazioni tenute di fronte a Giulio II; proprio in una di quelle circostanze aveva plausibilmente conosciuto Pietro Marso, di venticinque anni più anziano di lui.
Nell’anno del Signore 1509, dunque, Erasmo va a conoscere Pietro. Qualche anno dopo, nel 1523, scriverà all’amico Joost Vroye: “A Roma vidi Pietro Marso, longevo piuttosto che celebre, prossimo agli ottanta anni e ciò nonostante vigoroso d’ingegno e d’aspetto. Mi parve uomo probo ed integro, e non potei fare a meno di ammirare la sua laboriosità; in così grande età stava lavorando ad alcuni commenti sul De Senectute e ad altre opere di Cicerone. In lui ricorrevano tracce di una generazione antica”. Poche righe, che però dicono molto della considerazione e della stima quasi reverenziale che il padre dell’Umanesimo europeo aveva nei confronti del nostro conterraneo. Al di là delle considerazioni critiche sul Marso, infatti, è certamente rimarcabile il fatto che il suo nome appaia tra i pochi citati dal filologo olandese all’interno dell’ampia cerchia di relazioni culturali avviate o intrattenute in Italia. Segno, questo, di un rispetto e di una riconoscenza culturale tutt’altro che formali.
Nell’aprile del 1509 giunge ad Erasmo la notizia della morte del re Enrico VII; l’imminente salita al trono di Enrico VIII e l’invio di una quota di denaro da parte dell’amico Blount gli fanno prefigurare la possibilità di grandi successi in Inghilterra, così lascia Roma e durante il viaggio di ritorno elabora per la prima volta l’idea di celebrare l’elogio della follia, che diventerà il suo capolavoro con il titolo di “Moriae encomium”.
Il giudizio letterario di Erasmo su Pietro Marso è da più parti riferito come poco lusinghiero. Molti studiosi, in particolare, hanno posto l’accento su un aspetto puntuale della critica di Erasmo, quello relativo alla scarsa selettività del Marso in materia di studi ciceroniani. Eppure, anni prima lo stesso Erasmo aveva scritto, in una lettera inviata da Parigi nel 1501, di aver ritenuto necessario apportare solo “alcune piccole correzioni” all’interpretazione marsiana del De Officiis, segno evidente di una stima non comune nei confronti dell’umanista abruzzese. Nel Ciceronianus, però, Erasmo si sarebbe dimostrato esplicitamente critico nei confronti dell’eloquenza del Marso, accostando spregiativamente la sua figura a quella degli umanisti Antonio Mancinelli e Cornelio Vitelli, i cui esercizi retorici erano spesso tacciati di eccessiva verbosità.
Al di là di tale critica formale, a Pietro Marso è da riconoscere non solo la dedizione allo studio ciceroniano, a cui dedicò gran parte della propria esistenza, oltre che delle proprie fatiche, ma anche la cura con cui affrontò lo studio di opere fino ad allora scarsamente indagate, non fosse altro per la loro complessità. Pietro viene d’altronde considerato uno dei più antichi commentatori di Cicerone, ed a lui è riconosciuto il merito di esser stato “il primo a trattare un’opera di tale rilevanza”, dimensione che rappresenta insieme la grandezza ed il limite della sua ricerca. Il riconoscimento che Erasmo tributa al Marso con la sua visita a Roma è null’altro che una conferma del pregio di cui il filologo di Cese godeva nell’ambiente culturale italiano e continentale. Uno dei pochi, Marso, a potersi fregiare del titolo di “literarum monarcha”, significativo della riverenza tributata alle persone illustri, e uno dei pochi a suscitare e richiamare l’interesse di studenti e letterati d’oltralpe.
Non deve dunque stupire il fatto che Erasmo si dimostri al contempo ossequioso e critico nei confronti di Pietro Marso, riconoscendone di fatto la grandezza culturale ma stigmatizzando alcuni tratti della sua arte letteraria. Erasmo è stato d’altra parte uno dei maggiori innovatori del proprio secolo e già all’epoca dell’incontro con il Marso aveva sviluppato approcci e canoni filologici certamente diversi da quelli dei suoi illustri precursori, che però aveva ben studiato e voluto conoscere da vicino.
<Rielaborato da R.Cipollone, “Pietro Marso Cesensis” (2012) e arricchito da ricerche personali>




