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La morra

[Storia delle Cese n.50]
da Osvaldo Cipollone

La morra è un gioco dalle origini antichissime. Possiamo ritrovarne traccia addirittura nell’antico Egitto: in una tomba di un alto dignitario di corte si vede chiaramente il defunto stendere il braccio con un numero, contrapposto ad un altro giocatore. Sebbene vi siano indizi dello stesso gioco anche tra i Greci, tuttavia è nell’epoca latina che se ne hanno le più chiare manifestazioni, anche scritte: in un passo di Cicerone si legge, ad esempio, che dignus est qui cum in tenebris mices, ossia “è persona degna quella con cui puoi giocare alla morra al buio”. In latino la morra era indicata come micatio, dal verbo micare (digites), ossia “protendere le dita” nel gioco. Durante il Fascismo la morra è stata segnalata come gioco proibito e tuttora la legge la vieta nei luoghi pubblici. Questo perché, soprattutto nel Nord-Italia, la morra era praticata a tutti gli effetti come gioco d’azzardo. Soprattutto in passato, inoltre, la violenza gestuale e verbale del gioco si prestava benissimo a malintesi ed equivoci che a volte avevano risvolti drammatici.

In effetti, a Cese come nel circondario ed in tutte le zone in cui è più diffusa (prime fra tutte il Friuli e la Sardegna), la sfida, la provocazione e lo “sfottò” rappresentano dimensioni fondamentali della morra, che deve il proprio successo popolare anche all’estrema semplicità del gioco (indovinare la somma della propria giocata con le dita e di quella dell’avversario). La capacità e l’astuzia verbale dei giocatori spesso possono fare la differenza, soprattutto con l’imposizione del ritmo nelle jettàte e l’assoggettamento dell’avversario (specialmente dopo un serie di punti). Non è un caso che sovente il “ddù” diventi “ddùmate!” e il “trè” sia “trèma!”, né che le unità divengano migliaia (“ssé-mila!”) o che l’ultimo suono venga prolungato ed urlato in caso di punto a proprio favore. Se gli avversari sono in rapporti di familiarità e confidenza, inoltre, entra a far parte del gioco anche una sorta di “confronto fisico” tra gli stessi, così come una certa “aggressività” verbale tesa ad intimidire il competitore.

La morra ha inoltre generato nel tempo una propria terminologia o ha fatto proprie voci ed espressioni del nostro dialetto; alcuni dei vocaboli e dei modi di dire più diffusi: “manna’ o rei’ a ppeto” (possibilità di riprendere una partita dall’inizio quando la squadra o il giocatore conquista la parità), “reccolle le déta” (capacità di cogliere le ripetizioni nella successione di gioco dell’avversario), “schiuffà” (sottintendendo le mani: battere le mani una sola volta quando si raggiungono 5/10/15 punti), “repète” (gettare due o più volte lo stesso numero), “guerretta” (passatella che faceva da seguito alla morra). Tra le tante espressioni che la fantasia dei giocatori ha saputo generare, ce ne sono poi alcune tipiche, come: “Chiudi ‘ssa forchetta ca me sta’ a caccia’ j’ócchi!” (quando l’avversario gioca ripetutamente il due) o “Feniscila có ‘sso morzóno / có ‘ssa palanca!” (in riferimento all’uno giocato con il pugno chiuso o al cinque a mano aperta). In passato la morra era giocata anche nelle stalle, la bevanda in palio veniva prelevata con i secchi, le conche o le tine e si beveva da jo manèro (il mestolo di rame). Lo spazio “naturale” di questo passatempo tradizionale, ad ogni modo, era e resta la notte; spesso, dunque, chi vorrebbe riposare accetta di “chiudere un occhio”, cosciente del fatto che, soprattutto in piazza, e soprattutto d’estate, il gallo canta a volte… alle ddù.

<Rielaborato da un articolo de “La Voce delle Cese” n.3 (2006). Foto in evidenza di Fabrizio Bagnoli https://www.flickr.com/photos/fabriziobagnoli/>


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