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Pietro Marso: i primi anni e il legame con Cese

[Storia delle Cese n.31]
da Roberto Cipollone e Mario Di Domenico

Pietro Marso nacque a Cese in una data che deve collocarsi intorno al 30 Ottobre 1441, in base ad un obituario[1] attestante come data di morte il 30 Dicembre 1511[2]. Nell’epitaffio del Marso, voluto da suo nipote Ascanio ed anticamente conservato in San Lorenzo in Damaso a Roma, risulta infatti che visse 70 anni e due mesi. Fece scrivere Ascanio sulla tomba dello zio[3]:

Deo ter maximo monumentum
Petro Marso
aedis huius divis Laurentii canonico
viro doctissimo et integerrimo
bonorum omnium lachrymis honestato
votisque expetitio
Ascanius Marsus
patruo bene merenti posuit
Vixit annos LXX menses II
quae soli eloquii superabat gloria
et illa perdidimus
tecum vixit et interiit.

Del luogo esatto di nascita ci dà notizia lo stesso Marso nella monumentale opera su Silio Italico, ove scrive:

Oppidolum quod Cesas appellant indigenae,
meum natalem solum,
quattuor milibus passum ad Alba distat,
ad radices montis situm
in quo dictamnum nascitur.
Haec dixi ne ingratus erga patriam viderer meam,
quam mihi nihil est iucundis, nil antiquius

Ossia: “Un piccolo villaggio che i locali chiamano Cese è il mio suolo natio, a quattro miglia da Alba, sito alle radici del monte in cui nasce il dittamo. Dico ciò per non sembrare ingrato nei confronti della mia patria, poiché nulla mi è più caro, neanche le cose antiche”. Un omaggio generoso al proprio paese di origine, dunque, che Marso descrive attraverso due riferimenti primari: la distanza da Alba Fucens, classico riferimento geografico della regione marsa, ed il monte del dittamo, la rara pianta officinale che nasce ancora oggi sul Salviano[4], il monte che sovrasta l’area dei Piani Palentini in cui si colloca Cese. In merito all’identificazione del dictamnum è dunque in errore Dykmans, che nella sua fondamentale opera sul Marso ipotizza che il termine identifichi un torrente originante dallo stesso monte[5], torrente di cui invece non si trova traccia in alcun documento storico-geografico su Cese o sull’area palentina.
Pietro Marso è detto “Cesensis” o “de Cesis”. Egli stesso, infatti, in rare certificazioni amministrative e in alcuni brani letterari dati alle stampe per conto di altri, si scrisse anche “Petrus Cesensis”, quasi a rimarcare la propria piena identificazione con il luogo natio.

In relazione al cognome del nostro Pietro, vi è la certezza che “Marso” non fosse che un enfatico riferimento all’antico popolo del territorio d’origine. Il tema chiama in causa un altro nome eccellente dell’umanesimo italiano, quel Paolo Marso così soventemente accostato a Pietro da spingere alcuni biografi a ritenerli fratelli. In particolare, il Febonio ed il Corsignani ipotizzarono lo stretto legame di parentela tra i due, inducendo diversi studiosi, tra cui il Tiraboschi, a scrivere di “Paolo e Pietro Marso di lui fratello, e uomo anch’esso erudito…”. Un altro autore, Isidoro Del Lungo, tentò di risolvere la questione  in maniera meno puntuale: “Del resto, cotesti due fratelli sono, nelle memorie di quella cultura, tanto attaccati, che il più prudente partito, dinanzi al nome «Marsus», temo sia il dire: o l’ uno o l’altro. E non cascherà il mondo”. Una possibile origine del diffuso errore è quella ipotizzata dal Giustiniani nel suo Dizionario del Regno di Napoli: “Dove il Marso passasse i primi anni della sua giovinezza, non lo sappiamo, ma non è improbabile che sia stato educato in una delle città del circondario di Avezzano, e forse proprio a Pescina: il che fece nascere poi la voce in quella città ch’egli vi fosse nato.” Il tratto comune dei due umanisti era, in realtà, circoscritto alla sola area geografica di provenienza. La distinzione è ben confermata da Marcantonio Coccio (meglio noto come il Sabellico, per essere nato in Vicovaro nella Sabina), il quale, avendo personalmente conosciuto sia Pietro che Paolo, specifica che “Marso” era per Paolo l’esatto cognome, mentre per Pietro, nativo di Cese, rappresentava soltanto un soprannome. Scrive Arnaldo Della Torre nel suo lavoro su Paolo Marso: Il Sabellico, che conobbe certamente tutti e due, designa Paolo come «Paulus Piscinensis cognomento Marsus» e Pietro come «eius conterraneus Petrus Marsus Cesensis» accomunando la patria in quanto alla generalità della regione, ma distinguendo nettamente i due paeselli natii.

Della fanciullezza di Pietro, così come della sua giovane adesione al mondo ecclesiastico, si hanno assai scarse notizie, eccezion fatta per i pochissimi elementi da lui stesso tratteggiati a margine di alcuni scritti. Il Marso ci informa, in particolare, della sua precoce investitura religiosa in diverse occasioni. Scrive in un breve inciso del Panegirico di San Giovanni  Evangelista in onore di Innocenzo VIII: “A teneris annis, beatissime Pontifex, et militantis ecclesie columen, Innocenti, sacris initiatus”. Nella dedica dei commentari sul “De Divina deorum ed Divinatione” di Cicerone al Cardinale Francesco Gonzaga, torna sul medesimo concetto: “ab ineunte etate sacris institutis et cerimoniss initiatus  essem et addictus”. Infine, nella dedica di altri commentari al Re Luigi XI, dirà: “a teneris unguibus Divino famulitio adscriptus” (1507, commentari “De natura deorum, et De Divinatione”).

Dell’ambiente in cui si rivelò la sua vocazione religiosa e letteraria può ricostruirsi uno scenario solo a tratti definito, sebbene molteplici siano le tracce documentali della Cese medievale scampate alle devastazioni storiche antiche e recenti. Secondo la tesi sposata da Vincenzo Balzano, Pietro nacque “da gente agiata, se badiamo all’educazione che ebbe e all’amore che sin dalla fanciullezza nutrì per i buoni studi”. Un punto di vista condivisibile, sebbene autori come Di Domenico propendano per un’ipotesi di umili origini familiari, con due figli contadini ed un cattedratico che – nonostante la fama internazionale – non dimenticò mai la sua provenienza popolana. Scrive Di Domenico: “Della sua fanciullezza e successiva adolescenza, consumata tra i vicoli modesti, polverosi ed intrisi dell’odore acre delle stalle, o sulla piazza antistante la chiesa per i primi spensierati giochi, intorno alle mura dell’antico monastero benedettino, si conosce ben poco o quasi nulla. Certo è che la sua formazione fu molto influenzata dall’ambiente fortemente religioso in Cese, dove mosse i primi passi.”

Di certo vi è che la vocazione del nostro Pietro dovette essere fortemente influenzata dall’ambiente marcatamente religioso di Cese, ambiente in cui mosse i primi passi e sviluppò plausibilmente l’amore per le lettere classiche. Scrive lo studioso locale Giovanni Pagani: “Fu nell’ambiente del luogo natale, che rispondeva favorevolmente alle intenzioni dei suoi familiari di agiate condizioni, ma anche alle aspirazioni di lui, che manifestò senza indugio la sua vocazione alla vita ecclesiastica e la tendenza spiccata agli studi umanistici, verso i quali rivolse subito attenzioni particolari e serio interesse”. Durante il medioevo, nell’antica Cese si era generato un ambiente profondamente religioso, che favoriva frequenti vocazioni monastiche ed incentivava gli studi ecclesiastici. Un altro elemento di profondo legame tra il Marso e la realtà religioso-ecclesiastica cesense è relativo ad una caratteristica del tutto singolare dell’antica chiesa di Cese. Questa, infatti, sul piccolo architrave raffigurato sul tabernacolo reca una scritta in greco, lingua di cui Pietro Marso era universalmente considerato uno dei maggiori interpreti. Anche la basilica di San Lorenzo in Damaso, a Roma, chiesa di cui Pietro Marso fu canonico e rettore, presentava – caso insolito per i templi religiosi dell’epoca – diverse lastre sepolcrali in lingua greca.

Ipotizzare una correlazione diretta tra la vicinanza del Marso agli ambienti ecclesiastici romani e la contemporanea ascesa della chiesa cesense all’interno della gerarchia sociale e religiosa abruzzese può apparire azzardato; ma non si descriverebbe fedelmente la storia del tempio di Cese senza sottolineare quanto il suo periodo di massimo splendore sia cronologicamente legato alla presenza del Marso nel Clero romano. Tanto più che egli stesso in diverse occasioni esplicitò con forza il proprio amore per la terra natia, al punto da far ritenere verosimile la conservazione di un forte legame identitario con il suo borgo d’origine. Di fatto il Marso non l’abbandonò mai nella mente, e conservò nel tempo piccoli, profondi segni della sua appartenenza a quella terra. La porzione della casa paterna, i piccoli possedimenti nella campagna cesense, altro non erano che riconoscimenti minimi alle sue radici, a cui – come scrisse – teneva “più che alle cose antiche”.  Un documento fondamentale, in tal senso, è l’instrumentum concordiae che Pietro volle far redigere dal nipote Ascanio, notaio in Roma, relativamente alla destinazione dei beni ancora posseduti in Cese.

Il 27 Giugno 1508 , alla giusta età di 67 anni, Pietro Marso infatti convocò presso di sé il nipote Ascanio  perché redigesse l’atto riguardante le sue ultime volontà circa i suoi beni posseduti in vita e quelli che gli derivavano dalla indivisa eredità paterna con i fratelli già defunti. Domenico, Giovanni e Pietro Mei erano figli di contadini di umili condizioni. E Pietro, nonostante i successi letterari e le grandi conoscenze in Roma, aveva sempre conservato il contatto con il suo paese di origine, dove ancora possedeva alcuni buoi, poca terra vicina allo “stagno”, vari attrezzi agricoli e la sua quota ereditaria sulla casa paterna. Nell’atto protocollato da Ascanio egli stabilì così la ripartizione dei suoi beni tra i nipoti dei due fratelli defunti, Gregorio e Antonello, figli del fratello defunto Domenico, e Ascanio, figlio del fratello Giovanni: la sua porzione della casa paterna relativa al piano superiore fu ceduta ad Ascanio, mentre Gregorio ed Antonello occuparono il piano terra. Ad Ascanio, Antonello e Gregorio lasciò tutti i suoi mobili da dividersi in parti uguali di un terzo ciascuno. Per qualche sconosciuto motivo, questo bel progetto di Pietro non ebbe seguito. O almeno non ebbe seguito secondo le pubbliche forme. A margine dell’atto fu annotata la specifica del “non rogatus”: “Ascanius non fuit rogatus da hoc instrumento sed fuit hoc per errorem scriptum”.

Era il 1508, e plausibilmente Pietro sentiva vicino il momento della dipartita, sebbene in quegli anni fosse ancora in piena attività professorale e culturale. Da tanti anni era lontano dal suo paese natio, ma il legame era rimasto sempre forte.



[1] Raccolta manoscritta da Allacci e conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana

[2] V. Capalbi da Montelione in Ritratti degli uomini Illustri del Regno di Napoli: “Da niuno scrittore ci è riferita l’epoca precisa della nascita o della morte del nostro Marso, ma se vogliamo por mente esser egli vissuto gli anni settanta, e mesi due notati nell’iscrizione, che il celebre Erasmo lo vide in Roma nel principio del secolo XVI già vecchio e che Frà Leandro Alberti (il quale viaggiava nel nostro regno circa il 1525) dove parla di Cese dice, che il Marso… abbandonò i mortali pochi anni fa, non avrassi difficoltà a conchiudere, lui esser trapassato ne’ primi decennj del Sesto decimo secolo, e nato perciò circa l’anno 1440”.

[3] Forcella, Iscrizioni delle chiese… di Roma… Roma 1874

[4] O. Cipollone, Orme di un borgo: “Nell’esaminare questa citazione, oltre ad apprezzare i sentimenti dell’autore verso la propria terra, non si può sorvolare sull’importanza che si dà al ‘dittamo’.  […] Molti altri scrittori e poeti l’hanno citato. L’ha fatto il Pascoli nelle ‘Myricae’ e il Tasso nella ‘Gerusalemme Liberata’. Per questo motivo sono stato preso da una curiosità tale che mi ha indotto ad intraprendere una appassionata ricerca sul tema. Dopo aver girato per mesi con documenti e foto alla mano, ma senza esito, mi stavo convincendo che la pianta fosse da considerarsi estinta nel nostro territorio, anche perché era ormai trascorso mezzo millennio dalla citazione di Pietro Marso. Fortunatamente mi sbagliavo; durante una escursione, io e mia moglie abbiamo avuto la gradita sorpresa di “incontrarla” proprio sul Monte Salviano. […] Dovremmo ritenerla un regalo della natura e, soprattutto parte integrante della nostra storia, proprio perché riesce a fiorire ancora oggi sul nostro monte, 500 anni dopo che un nostro conterraneo l’ha menzionata esplicitamente”.

[5] M. Dykmans, L’humanisme de Pierre Marso: “Quant au petit bourg que ses habitants appellent Cese, c’est mon solo natal. Il est à quatre milles d’Albe, au pied de la montagne d’où naît le torrent Dictamnus. …”

<Tratto da R.Cipollone, “Pietro Marso Cesensis” (2012)>

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