[Storia delle Cese n.30]
da Angelo Melchiorre e Giuseppe Cipollone
La bibliografia sulla battaglia dei Piani Palentini è ormai sterminata. Dal famoso verso di Dante (cui si deve la consacrazione del nome di “Battaglia di Tagliacozzo”) ad oggi, poeti e narratori e storici di ogni tendenza e di ogni nazionalità hanno ricordato soprattutto la patetica figura del biondo Corradino, sceso dalla sua Germania per riconquistare il proprio regno e costretto poi a subire una delle più impreviste e tragiche sconfitte della storia, con la conseguente sua decapitazione a Napoli. La sconfitta di Corradino avvenne esattamente il 23 agosto del 1268, nei Campi Palentini, tra Scurcola, Magliano (o Carce), Albe e Cappelle.
Carlo d’Angiò, il 14 agosto, si accampa nelle immediate vicinanze di Scurcola. Quindi, essendo arrivato molti giorni prima del nemico, ha modo di conoscere a fondo il terreno per poter impostare in modo razionale la propria strategia. Corradino, invece, dopo aver tenuto un consiglio di guerra, parte da Roma solo il 18 agosto, insieme con Enrico di Castiglia e i suoi mercenari. Passando per Tivoli, giunge ad Arsoli (che allora segnava il confine fra Stato della Chiesa e Regno di Napoli) e, successivamente, a Carsoli, nella speranza di poter ricongiungere le proprie truppe con quelle dei Saraceni ribelli[1].
Le truppe di Carlo, forti di circa tremila uomini, erano formate da provenzali, francesi e italiani (toscani, lombardi e campani) ed erano comandate da Enrico di Cousance, maresciallo del re, il quale, per meglio ingannare i nemici, indossava le insegne reali. L’esercito di Corradino poteva contare su un numero maggiore di armati, ben cinquemila (tedeschi, italiani e spagnoli), che erano stati divisi in tre schiere. Carlo, che era inferiore di numero, fu consigliato dal prode ed esperto cavaliere Erasmo (o Alardo) di Valery, reduce di Terrasanta e vecchio di età e di senno guerresco, a porre una riserva di ottocento cavalli coi più fedeli baroni e coi migliori cavalieri, in un agguato, vicino al luogo della battaglia. Il posto preciso non è stato individuato dagli storici, ma già Buccio di Ranallo, nella sua dialettale Cronaca aquilana, così scriveva: “Quillo stava imbuscato e non con troppa gente; Non sapeano li nemici, dove stesse, niente: Stava ad le Cappelle sapiate veramente, Sentendosi lo aiuto uscì arditamente”. “Le indicazioni di Buccio – secondo Paoluzi – fanno riconoscere in Monte Felice o in Montecchio, vicino a Cappelle, sulle falde del Salviano, il luogo dove Carlo e Alardo si posero in agguato colla riserva per sbucarne a tempo opportuno. Altri invece lo fissano in pianura, tra Antrosano e Albe, tanto più che essendo quel sito in quei tempi boscoso, si prestava assai facilmente ad un’imboscata”.
La battaglia si accese, dunque, la mattina del 23 agosto. Il primo a muoversi fu Enrico di Castiglia con i suoi cavalieri spagnoli, e si diresse contro Enrico di Cousance, credendolo re Carlo. Dopo una violenta mischia, si sparse per tutto il campo la notizia che il re Carlo era stato ucciso, notizia che suscitò l’entusiasmo dei tedeschi e lo sgomento dei francesi. Iniziò l’inseguimento degli sconfitti, mentre il vero re Carlo, dal suo nascondiglio, attendeva il momento opportuno per intervenire con le sue forze fresche. Quando il vecchio Alardo si accorse che gli spagnoli di Enrico di Castiglia si erano allontanati dal campo per inseguire i nemici verso la montagna, fece muovere Carlo dal suo posto e, insieme, si scagliarono sulle schiere in disordine di Corradino. “Il misero giovinetto col cugino Federico (…) se ne fuggirono invece attraverso i monti ed i boschi Simbruini verso Roma”.
Questa fu, dunque, la famosa battaglia di Tagliacozzo, che decise di un regno e fu una svolta assai importante nella storia del Mezzogiorno d’Italia. Come noto, infatti, Corradino fu poi catturato, condotto a Napoli e decapitato.
I luoghi della battaglia sono talmente prossimi alla campagna di Cese che il Corsignani a suo tempo ipotizzò che il nome stesso del paese fosse derivato dagli scontri cruenti avvenuti in quest’area: «Non tutte le terre restarono disfatte, perché, fra le altre, vi abbiamo la Terre delle Cese col fiume Rafo, ambedue rinomate o per dir meglio antiche mentre la prima, cosiddetta dalle uccisioni dei soldati dei Re Corradino nella riferita zuffa quivi intorno accaduto, era stata sotto altro nome donato da Lotario Imperatore di Monte Cassino». Come noto, tale teoria non è sostenibile ma dà idea di quanto il “campo di battaglia” fosse prossimo alle terre cesensi.
Secondo alcune ricostruzioni, infatti, la riserva con a capo Carlo d’Angiò era nascosta alle pendici di Monte San Felice, più o meno nell’area dell’attuale stazione di Cappelle, mentre quasi certamente le vedette angioine erano appostate sulla sommità del colle. Si deve considerare, a tale proposito, che al tempo la zona era più boscosa e dunque adatta ad un attacco improvviso e inaspettato, anche in virtù della breve distanza rispetto al punto dello scontro finale, il famoso “Castrum Pontis” ormai scomparso, rispetto a cui la collina di Albe è sicuramente più distante.
Con molta probabilità, poi, alcuni scontri decisivi avvennero nella campagna tra Cese, Scurcola e Cappelle. D’altra parte scrive Augusto Cantelmi (“E là da Tagliacozzo dove senz’armi vinse il vecchio Alardo”, 1975): “Questi tanti episodi della battaglia , diretti magistralmente con accorgimento, permisero verso il pomeriggio il trionfo dei soldati di Carlo D’Angiò, i quali a sera inoltrata avevano dovunque sbaragliato i Ghibellini per tutto il campo palentino, inseguendo il nemico perfino verso Cese, dietro il Salviano e verso Tagliacozzo, sulla via di San Sebastiano, alle pendici del monte Arunzo”. A supporto di tale tesi vi è la toponomastica di diverse zone prossime a Cese, prime fra tutte “I Quarti” (termine da cui deriva latinamente “squartare”, ossia «exquartare», «fare in quattro») e “Le ‘Mmoccatore”, ossia “le imboccature”, punti verso cui erano state magari attirate le truppe nemiche con l’obiettivo dell’imboscata. Anche la denominazione de “Le Paranze” potrebbe avere attinenza con la battaglia, magari nell’accezione di “gruppi di soldati”, “truppe”, “soldatesche”; anche oggi, infatti, nel Sud Italia il termine “paranza” indica una combriccola, una compagnia stretta, o più cruentemente, nel gergo camorristico, una batteria di fuoco.
Come noto, in seguito alla battaglia dei Piani Palentini, Cese – come molti altri paesi “rei” di aver parteggiato per Corradino – dovette subire la vendetta di Carlo D’Angiò ed il saccheggio del suo esercito; rimase dunque fortemente danneggiata e la sua popolazione fu ridotta a poche famiglie superstiti, ma rinacque.
[1] Su questo percorso non tutti gli storici sono d’accordo, soprattutto circa l’itinerario finale, quello che Corradino segue da Carsoli in avanti. L’Oman, il Lot, il Salvatorelli, il Runciman ritengono che egli avesse seguito la via Valeria, passando pertanto per Tagliacozzo e Scurcola, fino a giungere ai Piani Palentini, dove, presso il ponte sul fiume Salto, sarebbe avvenuto lo scontro. Lo Herde, al contrario, in base ai documenti e all’osservazione diretta del territorio, cerca di confutare tale tesi e di stabilire con maggior precisione il percorso fatto da Corradino. Infatti – dice Herde – nella lettera inviata a Clemente IV, il re Carlo afferma che Corradino aveva attraversato il Cicolano (e non la via Valeria), con l’intenzione di raggiungere Sulmona, dove si sarebbe unito ai Saraceni provenienti dalla Puglia.
<Testo rielaborato da A. Melchiorre, “La battaglia di Tagliacozzo” in Terre Marsicane, e da indicazione di G.Cipollone>





