[Storia delle Cese n.88]
da Osvaldo Cipollone
Le consuetudini e le particolarità legate al periodo pasquale sono ancora molte; alcune, tuttavia, sono scomparse con lo scorrere del tempo. Prima della Pasqua del 1324, in particolare, nella chiesa di Cese convennero i chierici e gli abati di ogni chiesa del circondario per versare il proprio contributo, la cosiddetta “decima”, al vescovo dei Marsi Giacomo de Busce. “All’inizio del 1300 nei Piani Palentini vigeva un sistema di insediamenti costituito da 27 terre o castra, tra cui Tagliacozzo. Attorno ad esse esisteva una costellazione di luoghi, ville e casati, abitati da piccole comunità rurali che ruotavano intorno ad una chiesa, un monastero, un’abazia. Disseminati lungo i percorsi di collegamento, gli insediamenti erano soggetti ad un sistema di controllo unitario della ricchezza prodotta. Essa veniva tassata attraverso il prelievo annuo delle decime ecclesiastiche. Il precetto sul quale si basava tale contribuzione consisteva nel fatto che il governo delle anime richiedeva l’esercizio di un potere dei cui costi doveva farsi carico l’assemblea dei fedeli. Insomma il mantenimento della Chiesa era a carico non solo degli stati e delle signorie sotto forma di “censo apostolico”, monasteri, cappellanie, ma anche, e soprattutto, dei credenti, nella misura di un decimo dei propri guadagni. La decima era dunque presentata come un’oblazione. Con l’approssimarsi della Santa Pasqua, ogni anno si ripeteva detto rito. Anche in quella primavera del 1324 (ottavo anno di pontificato di Giovanni XXII), la procedura ebbe inizio nella piccola chiesa di Santa Maria di Cese, di pertinenza vescovile. Essa era stata scelta per la sua posizione baricentrica in un territorio diocesano vasto e privo di un centro urbano di rilievo. Il vescovo Giacomo, i canonici della chiesa, il clero e il popolo ricevevano gli incaricati con tutte le cerimonie del caso. Erano costoro i prelati preposti a riscuotere le decime nelle diocesi poste infra Regnum per conto del Collettore generale e Nunzio apostolico del Regno. Seguiva davanti a un notaio e a uno scrivano la lettura dell’interminabile elenco delle chiese esistenti, dei chierici e abati di ciascuna chiesa, convocati per la datazione, con la minaccia che i non solventes, sed ribelles sarebbero stati sottoposti a scomunica e denunciati al braccio secolare …”
Anche alcune consuetudini più recenti risultano oggi del tutto scomparse. Una, in particolare, era legata al tacere delle campane in corrispondenza della morte del Cristo. Negli ultimi giorni della Settimana Santa, infatti, si accompagnavano i vari momenti della Passione e Morte di Gesù con alcuni oggetti particolari: la “gnàccola”, la “scurdia” e le “raganelle”. La prima era una tavola lunga circa mezzo metro e larga poco meno, con due impugnature per la presa. Al centro delle facciate erano fissati due ferri mobili che, quando la tavola veniva agitata, battevano su dei grossi chiodi emettendo un rumore cupo e metallico. Essa veniva portata in giro per il paese dai ragazzi che la azionavano a turno, sia per comunicare l’ora delle funzioni liturgiche che per scandire i vari momenti della giornata; in quei giorni, infatti, le campane dovevano rimanere mute. La “scurdia” era ricavata da un vecchio secchio di latta schiacciato dopo avervi incastrato all’interno un bastone che faceva da manico. Si otteneva così una specie di pala che, battuta sulle scale o nelle adiacenze della chiesa, procurava rumore e frastuono per rappresentare lo sconvolgimento della terra dopo la crocifissione di Gesù. Lo stesso scopo avevano le “raganelle”: esse, roteando attorno ad un asse dentato, facevano flettere una lingua di legno e producevano un gracidio stridulo ed assordante. La gente presente in chiesa dava il suo contributo agitando le sedie, spostando con forza i banchi e battendo sulle porte.
Singolare era, sempre in occasione della Pasqua, l’addobbo del Santo Sepolcro. Dopo aver seminato il grano in vari contenitori e cassette, infatti, lo si faceva germogliare e crescere in ambiente privo di luce; in assenza di clorofilla, così, le pianticelle usate per l’addobbo del Sepolcro assumevano un colore giallo chiaro che le rendeva caratteristiche.
<Rielaborato da O.Cipollone, “La Voce delle Cese” nr. 101 e “Le Cese. Immagini di ieri”>

