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Le lattaròle e l’oro bianco delle Cese

[Storia delle Cese n.87]
da Osvaldo e Roberto Cipollone

Il vero e proprio commercio del latte a Cese è iniziato negli anni ’50, in seguito all’affermarsi in paese degli allevamenti di vacche della specie “brun’alpina”, adatta a produrre discrete quantità di latte. Già prima, a partire dal ‘35/’40, le stesse proprietarie di mucche, superando a piedi il Monte Salviano, raggiungevano Avezzano, trasportando sul capo un grosso paniere di vimini. Al suo interno, coperti da una tovaglia, trovavano posto fiaschi di latte, burro, caciotte e ricotte, tutto ovviamente in quantità sopportabili. Successivamente sono nate le cosiddette “lattaròle”, che oltre al latte di loro proprietà, raccoglievano anche quello di altri allevatori. In quel periodo pagavano 12 soldi per ogni litro di latte, ricavandone otto di guadagno dalla vendita.

Sostenendo il prezioso liquido sul capo, portavano anche altri due recipienti (di latta) con le mani, mentre percorrevano il sentiero montano. La nuova attività permetteva di raggranellare denaro necessario per gli acquisti particolari, come l’abbigliamento, oppure per allestire il corredo da dare in dote alle figlie. Nel tratto in salita venivano spesso coadiuvate dai familiari, facevano qualche sosta (la prima “alle péschie de Sant’Anna”, ricorda Elena “de Pierina”) e, raggiunta la sommità che costeggia il santuario di Pietraquaria, si fermavano brevemente per proseguire poi il tragitto da sole. A volte qualcuna inciampava lungo il viottolo impervio riportando abrasioni agli arti; in questi casi non sempre il prezioso liquido veniva salvato. Anche la rottura di fiaschi e contenitori, tuttavia, veniva “riparata” dallo spirito di solidarietà e dalla generosità del gruppo. Ognuna si privava di una parte di latte per offrirlo alla sfortunata di turno che, in tal modo, poteva onorare l’impegno quotidiano. Qualche anno fa Esterina, una delle poche lattaie ancora in grado di testimoniare la propria esperienza, ha raccontato che già a 13 anni si sobbarcava di ingenti pesi per recarsi ad Avezzano a vendere il latte porta a porta. Lei, come le altre “lattaròle”, aveva le sue “poste” (i clienti abituali), e spesso capitava che, dopo la fatica e la scalata di tanti gradini dei palazzi, si sentisse dire: “Mi dispiace, ma per oggi ce l’abbiamo, il latte”. Come lei, tutte dovevano affrontare sforzi e pericoli da sole lungo tutta la discesa e, a costo di sbucciarsi mani e ginocchia, erano costrette a proteggere il prezioso liquido in ogni circostanza. Ha anche ricordato che, in un’occasione particolare, verso “Pucetta” un grosso montone le è piombato addosso, facendola cadere con tutto il latte.

Dopo diversi anni di attività svolta esclusivamente a piedi, le lattaròle hanno iniziato ad usufruire dei primi mezzi di locomozione, gestiti in principio da Domenicantonio Bianchi (padre di Vincenzo e Emilio), Secondino Marchionni (padre di Fulvio, Antonio, Roberto) e Filippo Di Matteo, fino ad arrivare a Carmine Cosimati, che era in possesso di autobus con licenza di trasporto dei bidoni del latte. A professione consolidata, vista la quantità di prodotto da distribuire, alcune lattaie si sono dotate dapprima di ciclomotori con cassonetto, e poi di propri automezzi di varia natura. Così, grazie anche alla disponibilità dei primi mezzi motorizzati, le lattaie poterono trasportare maggiori quantità di latte tramite numerosi “bbiduni” di alluminio.

Arrivate presso le abitazioni delle clienti, tutte travasavano la “merce” servendosi di apposite misure di capacità e di un recipiente provvisto di beccuccio. Le misurazioni avvenivano per “quarti”, mezzi litri e litri. Le singole lattaie avevano le proprie “pòste” in abitazioni dislocate in vari quartieri di Avezzano. La distribuzione porta a porta era di pertinenza delle titolari, ma in alcuni casi queste venivano coadiuvate da mariti, fratelli e figli nelle operazioni di carico e scarico, oppure quando dovevano raggiungere i rispettivi rioni, una volta giunte ad Avezzano. Di norma le lattaròle venivano pagate ogni settimana, oppure alla scadenza dei 15 giorni, ogni mese, o quando era possibile.

È in particolare negli anni ’60 che sono proliferate le lattaie, anche grazie all’arrivo di mucche più propriamente da latte, le cosiddette “olandesi”, grazie alle quali la produzione è ulteriormente aumentata. Il valore economico della professione crebbe a tal punto che chi la dismetteva – magari per trasferirsi a lavorare a Roma – vendeva letteralmente “jo canistro” (“il contenitore”) con tutta l’attività, che contemplava anche le postazioni possedute ad Avezzano.  Allevatori e massaie hanno incominciato così a vedere i primi veri frutti della propria fatica e, grazie anche ai primi impieghi maschili nell’edilizia, si sono create disponibilità economiche tali da permettere ai figli un percorso di studi universitari. Si può affermare, in sostanza, che il “boom” economico del paese ha avuto un input importante da questa evoluzione. Anche da ciò è derivata l’alta scolarizzazione del paese, con il conseguente elevato numero di diplomati e laureati cesensi.

Il numero di coloro che hanno svolto l’attività di lattaròle è certamente ampio, e quello riportato qui di seguito è un elenco assolutamente parziale ed incompleto. Si riportano infatti i nominativi che si ricordano a memoria d’uomo, ma sicuramente molti altri sfuggono alle reminiscenze personali. Sta di fatto che spesso intere famiglie hanno mantenuto l’attività tramandandola di madre in figlia e dalle sorelle maggiori alle minori, per cui i familiari di molte lattaie sono da ritenersi collaboratori a tutti gli effetti.

Tra l’altro, va considerato che un’altra parte delle donne di Cese, proprietarie solo di qualche animale d’allevamento, si industriava producendo qualche caciotta, ricotte, un panetto di burro che poi portava a vendere nel vicino comune. Unendo magari questi prodotti a delle uova, un pollo ruspante, qualche chilo di legumi ed altro, le donne si recavano a piedi ad Avezzano il sabato mattina – giorno di mercato – oppure in concomitanza delle fiere e, portando la propria canèstra di vimini sul capo, esponevano la mercanzia proponendola a prezzi modici. Con il ricavato potevano così acquistare un indumento per i figli, il necessario per la scuola, e qualche prodotto alimentare che altrimenti sarebbe stato difficile acquistare. Anche costoro, al tempo, hanno contribuito a sostenere e migliorare l’economia familiare, sempre a costo di notevoli sacrifici.

 Nominativi delle lattaròle (elenco parziale)


Diversi sono i ricordi condivisi su facebook degli allora bambini avezzanesi. Per ovvie ragioni di età, gli stessi ricordi sono in gran parte relativi all’ultima generazione di lattaròle; se ne riportano alcuni come segno di affetto verso tutte le lattaie e le massaie di Cese.

Io ricordo una signora che portava il latte fresco da Cese con la sua Fiat 1100. Erano, mi pare, gli anni ’70 e questo è durato fino a quando il latte veniva confezionato in delle buste triangolari dalla società avezzanese “Latte Marsica”. Quella che veniva a casa nostra si chiamava signora Rosina, la ricordo benissimo. Con una specie di lungo mestolo a cui era attaccato un grosso bicchiere prelevava il latte da un grande contenitore in alluminio posto all’interno del portabagagli della sua Fiat 1100 e lo versava nei nostri contenitori di vetro. (Andrea Lo Russo)

La mia prima lattaia si chiamava Pierina, dopo è stata sostituita dalla figlia Elena. Oltre al latte portavano del buon burro e delle ricotte… Bei ricordi, io ero piccina ed ancora le ho nel cuore, i loro visi erano segnati dal freddo dell’inverno e d’estate bruciati dal sole….che donne…quanti sacrifici… (Maria Cristina Aquila)

Il pullman con un piccolo rimorchio era della ditta Cosimati di Cese, il quale oltre a fare da trasporto di pendolari, su un piccolo rimorchio trasportava latte per venderlo ad Avezzano: Ricordo che una signora con i suoi contenitori di alluminio contenente latte si posizionava in via Mazzini, angolo Sacro cuore. Bei tempi che non tornano più (Salvatore Rossi)

Tutti i giorni…. Latte buonissimo…. Ci siamo cresciuti con quelle mitiche zuppe di pane, latte e zucchero… (Paolo V Murzilli)

Me la ricordo benissimo, si chiamava Laura. Era piccolina e portava la ciambella sulla testa su cui poggiava in equilibrio il bidoncino in alluminio in cui c’era il latte. Ogni mattina faceva il tragitto Cese Avezzano e ritorno attraverso il Salviano per fare prima. (Maurizio Cipollone)

Me la ricordo!!! Lucia! Grande, scendeva dalla montagna per distribuire il latte fresco, era sempre puntuale. C’era il bottiglione sulla finestra e lei con assoluta precisione riempiva… mai in ritardo, mai assente, dopo aver attraversato tutta la montagna dalle Cese… e noi oggi ci lamentiamo… (Patrizia Buttari)

Io lo bevevo il latte delle lattaie di Cese, a ogni stagione cambiava sapore: d’estate profumato di pascoli verdi, d’ inverno un po’ meno profumato, dipendeva dal foraggio utilizzato nella stalla. (Kristina Follie Ro)

Più o meno 50 anni fa, verso le 7 della mattina, passava Lauretta, sempre da Cese, con il triciclo carico di contenitori di latta pieni di latte, scusate il gioco di parole… suonava il citofono e quando chiedevi “chi è?” rispondeva: “lattiii”!!! Una bollita e zuppa, buonissimo! (Fabrizio Pansini)

Quanti ricordi, siamo cresciuti con il latte della signora Lucia “la lattara” di Cese. Un panno arrotolato sulla testa con poggiato sopra il contenitore del latte. Si girava a piedi tutto il quartiere dei frati. (Angelo Cipolloni)

La mia lattaia si chiamava Ida e strillava per le scale “latteeeeeeee…” (Betty D’Alessandro)

Qui il video del “Ritorno sulla via del latte” realizzato dall’associazione giovanile Mapuche nel 2016: https://youtu.be/YZvQYBp4Nok

<Rielaborato dall’opuscolo “Le grotte palentine e la via del latte” (2016), a cura di O. e R. Cipollone, con integrazioni di Osvaldo Cipollone>


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