“Alla fonte”. Pozzi, fontane e fontanili

[Storia delle Cese n.86]
da Osvaldo Cipollone

A Cese l’acqua è sempre stata insufficiente per le esigenze igieniche ed alimentari delle persone e degli animali. In passato la si doveva attingere e “carià” (trasportare) dalle poche fontane sparse per il paese, presso  le quali avvenivano spesso storie di litigi e d’amore. Le ragazze che vi si recavano la sera con le conche in testa speravano anche di incontrare le amiche o il pretendente segreto (“jo quatrano”). A volte erano capaci di svuotare più volte la conca già riempita per avere la scusa di aspettare ancora qualche minuto e, per non essere sgridate dai familiari, a casa raccontavano magari che avevano dovuto aspettare a lungo il proprio turno.

Precedentemente al terremoto, l’unica fontana – fornita tra l’altro anche di vascone in legno – si trovava in piazza, nel punto in cui c’era prima un pozzo pubblico. Un altro era situato in piazza Umberto Maddalena ed entrambi erano meta di viandanti, pastori e gente del posto, che ne utilizzavano l’acqua per tutte le necessità. D’estate il livello dei pozzi calava sensibilmente fino a raggiungere il fondo ed esaurirsi, ma quel poco liquido che riusciva ad emergere veniva prelevato in continuazione, finché non comparivano quei tipi vermicelli rossi che sconsigliavano ulteriori prelievi.

Dopo il terremoto furono costruite diverse fontane sparse in più punti dell’abitato. Una prima fontana si trovava a “Santa Lucia” ed era situata subito prima dell’incrocio tra le attuali via Pietro Marso e via L. Pirandello (venendo dalla piazza). La più caratteristica era certamente quella della piazza; aveva due cannelle e si trovava sotto il muraglione che delimitava la piazzetta sovrastante. L’acqua vi sgorgava abbondantemente e quella superflua era convogliata in un’apposita conduttura a caduta per raggiungere un fontanile in cui si abbeveravano gli animali situato all’incrocio tra le attuali Via Isonzo e via della Fonte. Pochi metri più avanti si trovava il caratteristico “sciacquatorio”, con vasche a dislivello opportunamente coperte, dove le donne si recavano a lavare i panni. Un’altra fontana posta lungo il corso è quella che oggi molti chiamano “de Giuditta”, poiché situata davanti alla sua “bottega”. Anche da questa l’acqua eccedente defluiva in un fontanile-abbeveratoio situato in via Madonna delle Grazie, subito dopo la casa di Linda. “Ajjo burghitto”, nel punto ora occupato dalla cabina elettrica, si trovava un’altra fontana, che in seguito alla costruzione della cabina è stata spostata dapprima vicino alla stalla di Rantucci e subito dopo nella posizione attuale. C’era inoltre un fontanile detto “delle pecore” (perché composto da due bassi vasconi facilmente raggiungibili dal muso degli ovini), si trovava in via San Sebastiano e forniva acqua potabile; essendo inoltre situato più in basso di tutte le altre fontane, sfruttava l’acqua fino all’ultima goccia e, nei periodi di carenza (per rotture o riparazioni), era spesso circondato da recipienti di varia natura che attendevano di essere riempiti.   

Quando, infatti, si spargeva la notizia che l’acqua, per un qualsiasi motivo, stava per finire (e questo capitava molto spesso), le donne si passavano la voce e tralasciavano immediatamente le altre occupazioni per fare scorta del prezioso liquido. Ognuna correva con conche, secchi, brocche, “cutturelloni” e “marmette” di ogni tipo, cercando di arrivare prima delle altre. Mentre l’acqua, gocciolando, riempiva i recipienti con estenuante lentezza, nascevano spesso dispute e controversie perché c’era sempre qualcuna che pretendeva di passare avanti alle altre senza rispettare l’ordine. Alcune litigavano animosamente o si azzuffavano e magari approfittavano della lite per rivangare vecchi rancori non del tutto sopiti. I presenti ed i curiosi si disponevano intorno per assistere al litigio e conferivano alla scena un aspetto insolito, quasi folcloristico. A volte, mente le contendenti si accapigliavano, qualcuna, approfittando della disattenzione delle altre, cercava di riempire i propri “ardigni” (contenitori), ma veniva subito bloccata in malo modo.

Nonostante il detto reciti che “i panni sporchi si lavano in casa”, a Cese questa operazione doveva essere fatta alla fontana o, come detto, “ajjo sciacquatorio” pubblico che si trovava alla via dell’Ara; anche questa era una buona occasione per chiacchierare o litigare. Già in tempi precedenti si faceva la “’ocata” (il bucato), mettendo a mollo i panni dentro “jo tinaccio” (un grosso tino) con cenere ed acqua calda; in un secondo tempo venne usato soprattutto il sapone. Per risciacquare i panni, se non si trovava posto “ajjo sciacquatorio” si proseguiva per la Rafia, dove, su pietre levigate dall’uso, le donne “schiuffavano” (sbattevano) lenzuola, vestaglie, “cazùni” e “cazétte”, accompagnando il lavoro col canto e sollevando schizzi di acqua insaponata. Per lavare i panni alla fonte, invece, si munivano di bagnarole, tavola, secchi e sapone e, una volta ultimato il lavoro, si aiutavano a vicenda per “chiòrce” (strizzare) le lenzuola, poi sistemavano la biancheria pulita dentro la “canèstra” e la portavano sulla testa fino a casa.

Il tempo ha portato via queste scene e con loro anche diverse fontane sparse per il paese. Oggi è attiva quella presente nei pressi della Madonnina e, con minor costanza, quella “di Giuditta”, oltre alla piccola fontanella di “Santo Rocco”. I vecchi fontanili sono tutti scomparsi (così come “jo sciacquatorio”), mentre fortunatamente resta il fontanile di campagna conosciuto ed apprezzato dagli abitanti di Cese e del circondario.

<Tratto da O. Cipollone, “Le Cese – immagini di ieri” (1990) e “Angeli co’ jji quajji” (1997)>


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