[Storia delle Cese n.83]
da Osvaldo Cipollone
Durante la settimana successiva al matrimonio la sposa non si faceva vedere in pubblico; per almeno sette giorni, in pratica, non oltrepassava l’uscio di casa e se aveva bisogno di qualcosa doveva attendere la visita della madre, di una zia o di una sorella. Chi, ad esempio, si sposava di giovedì (o in un altro giorno feriale), rimaneva in “clausura” ancora più a lungo, poiché non usciva la domenica immediatamente seguente, ma quella dopo. Era come se la famiglia che andava formandosi dovesse osservare un forzato periodo d’ambientamento, per poter poi proseguire il proprio percorso comune. In realtà era solo la sposa ad interrompere i contatti esterni; il marito usciva normalmente, magari solo per raggiungere il campo di lavoro e la stalla.
La domenica della “rrescita”, poco prima della messa solenne, due donne della famiglia andavano a prendere la sposa nella nuova abitazione e la accompagnavano in chiesa. Nel condurla in pubblico era come se volessero presentarla alla comunità sotto la nuova veste di moglie. L’appartenenza alla nuova famiglia ufficializzava la subalternità a quella dello sposo. Il rituale “dello rrescì spósa” era anche l’occasione per indossare il vestito o il cappotto avuto in regalo dalla suocera proprio per quel giorno. La suocera, infatti, era tenuta regalare alla nuora un vestito da utilizzare per l’evento. Salutata e riverita da compaesani e parenti, la sposa non rimaneva mai sola. Prima di mezzogiorno si concedeva una breve passeggiata lungo il corso per poi raggiungere la famiglia d’origine. In casa si sarebbe tenuto un modesto banchetto, al quale prendevano parte i familiari più stretti della coppia; si trattava in pratica del primo pranzo tra parenti di sangue ed acquisiti. Dopo quell’occasione, gli sposi avrebbero iniziato il loro cammino di coppia tra riservatezza e, spesso, difficoltà economiche. Avrebbero affrontato così una nuova vita ostacolata di sovente da ristrettezze ma a tratti generosa di soddisfazioni, magari sottolineate dall’arrivo della numerosa, benedetta prole.
Sul tema raccontava “Ninetta” Cipollone (1923-2019), ricordando le usanze legate al matrimonio: “Jo corredo se faceva a secundo de comme steva la famiglia. Comme media ognuna se porteva ‘na dozzina de linziòla, po’ ddudici tovaglie, pannolini, asciugamani e ll’atro… La famiglia della spósa se doveva spossessi’ pe’ fa’ jo corredo. Puri le camiscie da òmo, le maglie e ji carzettini dovivi porta’. Tutto. Jo spuso penzeva alla casa e ajjo létto. La sòcera te faceca j’abbito delle nozze e ‘no cappótto (o ‘no vestito) pe’ rresci’ spósa”.
Maria Cipollone de “Casciaro” (1924-) riferiva invece che” venevano i ggiovenótti a ‘ncollàrese jo corredo. A ‘no ‘raccio ci mettivi ‘no chiòrtajo, a ‘n atro ‘na coperta, ddu’ linziòla, ‘no cotturo, pochi asciugamani, ‘nzomma quelo che te portivi. La spósa, la sera dejj’apprézzo, faceva la cena pe’ lle ddu’ famiglie; la stessa cósa la faceva la domeneca apprésso, quanno rresceva spósa”.
L’usanza dello “rresci’ sposa” era diffusa un po’ in tutta la Marsica; in alcuni paesi come Capistrello, Corcumello ed Albe, in particolare, era nota anche come “rresci’ ‘n-grazia”. La consuetudine era in uso sicuramente anche in tutto il sud-Italia ed in alcune aree alpine. Nel basso Lazio le modalità erano del tutto analoghe alla nostra: in alcuni documenti si legge infatti che la domenica successiva agli otto giorni avveniva “il rientro nella vita comune“, cominciando con l’uscita a messa, e che la sposa indossava il vestito più bello e più ricco. In Puglia tutti i parenti dovevano andare a vedere i novelli sposi mentre questi si recavano a messa, dopodiché si festeggiava nuovamente, con un grande pranzo organizzato a casa dei genitori della sposa. In Sicilia l’usanza era nota come “nisciuta di li ottu jorna” (uscita degli otto giorni). Anche in Calabria esisteva un vestito specifico, chiamato “costume di mezza festa”, che veniva indossato la domenica successiva al matrimonio per andare in chiesa “a baciare il vangelo”. In Basilicata lo stesso vestito veniva poi custodito in un baule, mentre la prima settimana vissuta in casa veniva chiamata “a summan da virgugnanz” (da intendere più come “la settimana del pudore/riserbo”). In alcune aree alpine (Friuli/Val d’Aosta), la domenica successiva al matrimonio la suocera accompagnava la nuora alla santa Messa e le indicava il posto e il banco di famiglia. Usanze di un’era passata che rivivono oggi solo nei ricordi dei testimoni del tempo.
<Tratto da Osvaldo Cipollone, “Le nozze di canapa” (2016)>
