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I campi sperimentali e la rivolta di Cese degli anni ‘50

[Storia delle Cese n.68]
di Osvaldo Cipollone

Intorno al 1950 il paese di Cese ed il territorio adiacente furono interessati da un avvenimento che sconvolse la naturale quiete del posto. Un giorno, infatti, si videro muovere verso la zona “dell’Ara” alcuni mezzi meccanici di inusuale fattura e funzione. I nostri compaesani, incuriositi, chiesero cosa avessero in mente di fare i manovratori con quei marchingegni. Inizialmente venne riferito che si trattava di escavatori necessari per la trivellazione di un pozzo a ridosso della bonifica della Rafia (il canale parallelo al fiumiciattolo, realizzato per raccogliere l’acqua che tracimava nei momenti di piena). “Ma a cosa serve un pozzo laggiù?” – si domandò qualcuno. “Ad avere acqua per le eventuali emergenze, sia per qualche incendio, sia per altre evenienze” – fu risposto. I locali osservarono ancora: “Ma per questo qui esistono già vari pozzi a portata di mano, e poi perché realizzarlo così lontano?”. “E poi mica ci vogliono tutti questi macchinari per scavare un pozzo? – fece notare uno dei tanti – Mio nonno lo ha fatto assieme al fratello con un piccone, un badile, una corda e un secchio”. “Sì, ma questo è molto più grande ed è per questo che occorrono più mezzi” – risposero gli addetti. “Bah!!! – obiettò l’altro – con tanta acqua che scorre dentro il fiumiciattolo, hai voglia (i pompieri) a prelevarla con le pompe…”.
Fatto sta che il pozzo venne realizzato, anche se, a dire il vero, assomigliava più a una cisterna quadrata che a un pozzo come era conosciuto allora, per cui l’acqua, cercata in abbondanza, si rivelò esigua e non sufficiente agli intenti dei progettisti. A quel punto si pensò bene di effettuare un altro scavo al di là del torrente Ràfia, nella zona cosiddetta “jjo Ponto” e in prossimità dei terreni demaniali della “Séleva”. Anche quell’intento, però, rimase in sospeso e poi fu definitivamente accantonato. Ben presto, infatti, le ruspe, i macchinari e gli operatori diressero i comandi verso l’area del campo comunale (quella attualmente occupata dal campo sportivo); incominciarono a dissodarlo (a “spratarlo”) e a delimitare i confini con fossi e canali di scolo, alcuni dei quali addirittura cementati.
Di lì a qualche tempo si seppe che quell’area sarebbe stata sfruttata per realizzare un campo sperimentale ad opera di una ditta del nord Italia il cui responsabile era un certo Confortini, agronomo e imprenditore agricolo. L’esperimento, progettato e voluto dall’Ente Fucino, venne in effetti portato a termine ed in quell’area vennero seminate bietole da zucchero, con considerevole successo. Nell’attività venne coinvolto persino un giovane del posto, ma la sua collaborazione terminò ben presto.
Fin qui, ben poco di strano, poiché quei terreni agricoli fino ad allora erano occupati da prato per il fieno e non erano coltivati da nessuno. Nelle immediate vicinanze, in contrada “La Selva” e “Colle dello Streppito”, esistevano però altri campi di proprietà del Comune, suddivisi in porzioni di circa 1000 mq (circa una coppa e mezza del tempo). Si trattava di una zona di diversi ettari, che, dopo la fine della prima guerra mondiale, era stata lottizzata e assegnata, oltre che ai reduci e ai loro familiari, anche agli orfani e congiunti di coloro che avevano pagato con il sangue la partecipazione della Patria al conflitto. A quei contadini, in pratica, era stato imposto di disboscare il terreno ancora occupato dalla vegetazione, dissodarlo e lavorarlo in concessione, e a quel tempo i lotti menzionati venivano regolarmente coltivati da circa 30 anni. A fronte dei “misteriosi” e subdoli movimenti di macchinari, gli assegnatari aprirono gli occhi e le orecchie ancor più di quanto avevano fatto in precedenza. Per vie traverse, così, emerse il progetto che di lì a poco si sarebbe concretizzato: l’accorpamento delle due contrade e dei piccoli lotti, da porre in essere per realizzare colture sperimentali.
I mezzi meccanici continuarono a lavorare per realizzare fossi da cementificare ed ottenere scoli per l’acqua da convogliare in discesa verso il torrente Rafia, e l’imprenditore Confortini, che aveva ottenuto l’appalto per la realizzazione di quell’accorpamento agrario, proseguì nell’opera senza dare ascolto ai primi di Cese che iniziarono a protestare. A quel punto la popolazione insorse, capeggiata da tutti gli assegnatari di quelle terre e anche da alcuni legittimi proprietari di altre aree più vaste che temevano la stessa sorte. Gran parte di questi erano tornati dagli Stati Uniti, dove erano rimasti per anni, ed avevano fatto investimenti in zona acquistando ampi appezzamenti con i dollari guadagnati in America. La sommossa si allargò al punto che l’imprenditore, per abbonire la popolazione, promise la realizzazione, nella stessa contrada, di una schiera di fabbricati da utilizzare come stalle e masserie. Secondo la sua idea (forse non del tutto malsana), tale sistema avrebbe liberato il paese dalla sporcizia e dal lezzo del letame, regalando all’abitato di Cese e al suo centro storico un aspetto degno dei borghi più caratteristici e ben curati. Come a tutti noto, infatti, in passato il paese era strutturato proprio come recita il vecchio proverbio popolare secondo cui “esce e entra proprio comme casa e stalla”.
La popolazione, tuttavia, si oppose a questa ipotesi ritenendola impraticabile. Come avrebbero potuto gli allevatori svolgere le mansioni di sempre, percorrendo a piedi, con secchi e pesi al seguito, circa un chilometro di strada, d’estate e d’inverno? Come avrebbero potuto accudire maiali, pollame e animali d’allevamento ogni giorno e a più riprese? La protesta muoveva anche dal fatto che l’intera operazione era stata realizzata con un’azione ingannevole e che le finalità erano state tenute nascoste da tempo. Nessuno, infatti, era stato adeguatamente informato, né tantomeno erano state adottate le previste modalità di legge. Alla luce di queste recriminazioni, le persone del posto si radunarono dapprima in piazza e poi “all’Ara”, emulando in qualche modo i “cafoni” di “Fontamara” ed armandosi di forche, zappe, vanghe e correggiati (i vatteturi).
Così attrezzati, i cesaroli si ammassarono attorno ai macchinari in azione, opponendosi energicamente ai manovratori dei mezzi. Qualche donna si sedette per strada con il figlioletto in braccio, qualche contadino legò il proprio bestiame alle ruspe, un pastore portò il gregge a pascolare nell’area interessata e un giovane Carmine Cipollone, che sarebbe divenuto di lì a poco padre trinitario, si coricò davanti ad un mezzo cingolato arrestandone la marcia.
A quel punto il responsabile dell’impresa si recò al telefono dell’ufficio postale e chiese l’intervento delle forze dell’ordine, che giunsero dopo qualche tempo all’Ara. I militari scesero a terra da alcune camionette cercando di disperdere gli “insorti”, ma nulla poterono nei confronti delle donne decise a non farsi mettere le mani addosso, né delle mamme irremovibili che tenevano in braccio lattanti che piangevano. Il maresciallo dei carabinieri, per non vanificare la propria opera, trovò un escamotage che si rivelò efficace: fece arrestare il giovane dissidente coricato a terra e lo fece caricare a forza da quattro militari, mentre i compaesani cercavano di trattenerlo. Nel compiere l’arresto, il sottufficiale ammonì tutti urlando: “Il primo che si avvicina, farà compagnia a lui!”. Quindi fece partire la jeep. Tra le proteste e le urla, il mezzo inizialmente si mosse a fatica, poi riuscì ad accelerare per raggiungere la stazione del comando di Avezzano.
In quel mentre il maresciallo, per calmare la popolazione, suggerì al responsabile della ditta di sospendere momentaneamente i lavori; rivolto poi alle persone di Cese, consigliò loro di tornare nelle proprie case, poiché il progetto era stato temporaneamente interrotto. Intanto Carmine, interrogato in caserma da un ufficiale, dichiarava di non aver commesso nessun illecito, se non quello di rivendicare un diritto sacrosanto della sua famiglia, rimarcando il fatto di aver protestato democraticamente a mani nude e di non aver opposto resistenza a chi lo aveva preso a forza. Dopo poco sarebbe stato rilasciato, ma solo dopo la verbalizzazione delle dichiarazioni. L’atto di coraggio suo e dei suoi compaesani si rivelò efficace, in quanto sortì l’effetto desiderato, ossia l’annullamento di un progetto in attuazione che non aveva previsto il parere preventivo delle persone direttamente interessate, cioè i contadini.

Oggi è doveroso riconoscere a quei nostri conterranei la forza comune e la compattezza manifestata nell’occasione; 70 anni fa non era così semplice farlo, anzi era impensabile. Qualche dubbio può essere ritenuto legittimo, specialmente in merito all’affrettata scelta adottata dalla gente e da chi la guidava, nonché in riferimento alle eventuali soluzioni di compromesso che si sarebbero potute valutare. In ogni caso, le valutazioni e le considerazioni sono figlie del tempo, e a quell’epoca si doveva badare al sodo, alla sopravvivenza, alla protezione del proprio fazzoletto di terra e non alle vedute futuristiche e all’incertezza del cambiamento. Ai posteri, cioè a noi, è rimasto il dilemma.

<Articolo originale di Osvaldo Cipollone>


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