[Storia delle Cese n.53]
da Osvaldo Cipollone
L’accettazione del “contratto di fidanzamento” tra due giovani implicava quasi sempre la verifica della “róbba”, ossia della proprietà, delle terre e della dote. La dote era dunque il bene primario che la sposa riceveva dai genitori; una parte del patrimonio familiare, avuto come anticipo o come lascito definitivo. In molti casi la stessa dote veniva equiparata alle altre quote dell’eredità, costituite da case (spettanti di norma ai figli maschi), terreni ed altri beni. Ognuna di queste suddivisioni segnava una determinata stabilità economica. Portando con sé il corredo, la sposa da un lato toglieva al casato una parte di patrimonio, e dall’altro acquisiva beni permanenti che l’avrebbero accompagnata, di fatto, per tutta la vita. Per il corredo, d’altra parte, si era disposti anche a sacrifici importanti; il fatto che venisse esposto pubblicamente dava evidenza anche dello status sociale raggiunto. Era per questo (ma non solo) che il corredo doveva essere oggetto di valutazione ed “apprezzamento”.
Tra i costumi in voga nel passato c’era dunque anche “j’apprézzo”. Per l’occasione si sgomberavano alcune stanze e si esponevano tutti i capi. Ogni oggetto aveva la sua collocazione e niente veniva disposto a caso. In uno specifico settore trovavano posto gli utensili della cucina: stoviglie, padelle e paioli. In un altro quelli della camera da letto: lavabo (“jo pèto dejjo bbaccilo”), brocca e vaso da notte. In un altro ancora i capi propri del corredo: materasso, imbottita, coperte, cuscini, biancheria e vestiti. Nel giorno stabilito (solitamente il mercoledì sera), lo sposo, i genitori e una zia (o la cognata più anziana) facevano visita alla famiglia della sposa. Lì, alla presenza dei familiari, si passava in rassegna quanto esposto, valutando e “apprezzando” ogni cosa. Tutto veniva annotato su di un foglio per poi essere sottoscritto dai capi-famiglia, che divenivano testimoni e garanti. Al termine del rituale, i familiari della sposa offrivano la cena.
Negli elenchi si riportavano numero e valore della biancheria, degli oggetti da cucina e della mobilia che veniva concessa dai genitori alle figlie. Persino gli elementi di modesto valore come “i pannuni” trovavano spazio sulla nota. La lista serviva per due scopi: “fermare” il valore dei capi donati e documentare quanto dato alla sposa, anche a beneficio degli altri fratelli e sorelle che avrebbero così potuto avere un opportuno riscontro in seguito. Ogni lista, inoltre, elencava anche gli indumenti relativi allo sposo che erano a carico della sposa. In epoche remote, la sposa omaggiava la suocera con un indumento di uso pratico, il tipico “zinalo” che poteva essere di raso o di altra stoffa. Per il futuro marito, invece, sceglieva la camicia da indossare durante la cerimonia, e gliela donava quando riceveva l’abito da sposa e la sottoveste. La suocera, fra l’altro doveva regalare alla nuora un vestito da utilizzare la domenica successiva al matrimonio. Era quello che avrebbe indossato nell’occasione di “rescì’ spósa”. Lo sposo, oltre alla casa, doveva provvedere alla struttura del letto, alle reti, “ajjo pagliariccio”, “ajjo pèto dejjo baccilo”, alla brocca e al vaso da notte. In pratica, aveva l’onere di procurare elementi e suppellettili della camera da letto.
Dopo il matrimonio, il corredo diventava ovviamene di proprietà degli sposi. In alcuni casi, però, sorgevano anche discussioni sulla qualità e sul numero dei capi dotali. Le diatribe venivano appianate da soluzioni di compromesso, spesso attraverso un’integrazione delle parti mancanti. In caso di divergenze, però, potevano nascere anche dissapori di difficile soluzione.
Anche la sfilata di trasferimento presso la casa futura era un segno evidente di status, alla pari dell’atto con cui si omaggiavano i familiari con i beni da utilizzare per il pranzo nuziale. Quest’ultima fase che precedeva le nozze serviva anche per mostrare il valore del casato e il rafforzamento del legame esistente tra le famiglie. Laddove, invece, esistevano ancora tensioni e dissapori, questi dovevano essere necessariamente appianati. Uno dei proverbi in voga nella nostra comunità, d’altra parte, recita ancora così: “A nozze e a mórte se chiudono j’ócchi”.
Testimonianze
“Richetto” Cipollone: «J’apprézzo? Scì che me jjo recordo. Veneva reggistrata tutta la róbba che porteva la spósa, puri pe’ se llo recordà pe’ l’atre figlie. Pe’ ji maschi era divérzo… Jo spuso ateva prepara’ solo jo létto, le reti e jo pagliariccio».
Maria Cipollone “de Casciaro”: «Prima de sposatte ativi espone la róbba che te portivi; se faceva j’apprézzo. J’ateva vede’ la ggente e la famiglia dejjo spuso. Che era comme mmo’? Tutti atevano sape’ quelo che te portivi… La spósa, la sera dejj’apprézzo, faceva la cena pe’ lle ddu’ famiglie; la stessa cósa la faceva la domeneca apprésso, quanno rresceva spósa».
Secondina Marchionni: «Na ‘òta che jo corredo era pronto, se occupevano tutte le stanze pe’ espone j’apprézzo e fajjo vede’ alla gente. Ci potevano i’ puri j’atri a curiosa’, ma non quanto se faceva la “conta”. Jo spuso veneva co’ la famiglia, ma la più ‘nteressata era la mamma. Se non la teneva, ci jeva ‘na zia o la cognata più anziana. I’ che sò’ stata la prima a sposàreme, sò’ ita a quasci tutte le cognate, ma ‘nzémmia co’ la socera. Lòco se conteva tutto e ugnuno scriveva sopri ‘no fóglio i pézzi. Tu penza che a mmi, mamma m’ha fatto scrive pe’ ffino jo zinalo, la spara, l’ombrella, tutto. Na ‘òta fenito j’apprézzo, se faceva la cena. Dóppo se sparecchieva e se metteva tutto dentro le casce. La conta se faceva pe’ appunta’ e testimonia’ la dote. Siccomme che ajji maschi ci sse devano le fabbriche, alle femmone ci devano jo corredo pe’ compenza’ e giustifica’. Pe’ questo se segneva tutto: ‘no matarazzo, quattro coperte, dièce linziòla, ddudici assucamani, ddudici spari, quest’ e quest’ atro… La sòcera poteva dice puri: “E, ma solo ‘ste poche linziòla ci sta’ ffa’ porta’?… Ma ‘sta coperta non te pare tróppo fina? Comm’è che all’atra figlia ci si ffatta la machina da coscì e a questa no’?”. ‘Ne succedevano de commèddie…».
<Rielaborato da O.Cipollone, “Le nozze di canapa” (2016)>







