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Il sacrificio del maiale

[Storia delle Cese n.45]
da testimonianze locali

Quelli della mia generazione se le ricordano ancora, le scene e le urla straziate dei maiali che andavano al sacrificio. Con gli occhi di oggi le stesse scene ci apparirebbero crudeli e impietose, ma quelli erano i sistemi “naturali”, mutuati dai padri, che mescolavano nei rituali dell’uccisione le tradizioni e l’arcaicità con la necessità di sopravvivere. Perché di questo si trattava. Il maiale, nei paesi come il nostro, era una fonte imprescindibile di nutrimento e se andava a male (o se non ce lo si poteva permettere) c’era solo da stringere ancor di più la cinghia e accontentarsi.

Per l’uccisione e la macellazione del maiale, a Cese come in tutti i paesi del circondario, si attendevano giornate particolarmente fredde tra dicembre e gennaio, rigorosamente nel periodo di luna calante (“alla mancanza”), poiché si riteneva che questa fosse la fase più idonea alla preparazione della carne. A quel tempo il maialino si acquistava nelle fiere o da qualche fornitore che vendeva la “nidiata” dei cuccioli appena svezzati a prezzi accessibili alle misere tasche paesane. Non sempre, però, tutti gli esemplari arrivavano a buon fine e al giusto peso. L’alimentazione era infatti basata sugli scarti di cucina, così nel trogolo (“jo scifo“) finivano brodaglie varie aggiunte di sale, un pugno di semola, verdure da scarto, bucce, tutoli, zucche e patate da scarto. E ogni tanto la povera bestia “ssoppecheva jo scifo”… L’alimento preferito dai maiali, oltre alla zucca, era il granturco, ma la sua farina era necessaria ai contadini per la polenta o per le pizze da cuocere sotto “jo cóppo”. Dunque erano pochi i maiali che raggiungevano il quintale di peso e pochissimi quelli che lo superavano.

Ad ogni modo, i preparativi per l’uccisione iniziavano nel pomeriggio precedente al giorno prescelto. Si preparava la balla di paglia, si affilavano coltelli e rasoi, si approntavano le casseruole, l’uncino, la “callara” per l’acqua bollente e “jo jamméro” (il divaricatore di legno per appendere il maiale). Di primo mattino arrivavano i parenti e gli amici coinvolti nell’evento. Solitamente si trattava di fratelli, cognati e vicini di casa, oltre all’esperto “norcino”. Nel momento definito, la bestiola veniva arpionata con l’uncino dal porcile e poi trascinata all’aperto. Di solito quest’operazione veniva compiuta dal padrone, coadiuvato dagli altri che invogliavano l’animale verso il nuovo giaciglio con un pugno di granturco. Quindi, in prossimità della balla di paglia adeguatamente posizionata, l’animale veniva sollevato di peso, coricato e immobilizzato. In quattro lo tenevano per le zampe, mentre le urla ed i tentativi di divincolarsi impegnavano anche l’uomo che sorreggeva l’uncino. Chi doveva sgozzare la bestia attendeva paziente il momento opportuno; al suo fianco c’era sempre una donna con un secchio o una bacinella (con un po’ di sale sul fondo) per il recupero del sangue.

Poi, con un colpo deciso e mirato, l’uomo preposto sgozzava il maiale facendo defluire fiotti di sangue dentro il recipiente. La donna a quel punto si scostava per mescolare il sangue a mani nude prima che quello coagulasse. Il maiale doveva sopportare ancora altri spasmi prima che il suo corpo esanime venisse lasciato a terra. In seguito veniva ricoperto di paglia alla quale veniva dato fuoco per bruciare le setole (nelle zampe, nella testa, nelle orecchie e in ogni altro punto). Intanto l’acqua bollente era pronta dentro alla “callara”. Veniva prelevata e dosata nei punti necessari in modo che si potesse intervenire con coltelli e rasoi affilati per rimuovere i peli residui dalla cotenna mezza affumicata. A più riprese l’animale veniva voltato e pulito servendosi di altri mestoli d’acqua bollente. Rimosse anche le unghie, veniva ancora pulito e lavato con cura, quindi gli veniva recisa la pelle delle zampe posteriori per far emergere i tendini. In quei precisi punti s’infilavano le estremità dejjo jammèro, il divaricatore ricurvo fatto con legno di olmo o di quercia. Trasportato di peso da più persone, questo veniva ancorato ad un gancio del soffitto tramite una corda che lo assicurava per le successive operazioni. Con l’ausilio dei presenti il maiale veniva poi sviscerato e gli intestini erano solitamente affidati alle donne, le quali provvedevano a svuotarli e lavarli accuratamente affinché si potessero utilizzare per gli insaccati (a seconda delle dimensioni). Cuore, corata, vescica e “sugna” andavano ad occupare altri spazi in attesa del loro utilizzo. A quel punto si passava al prelievo delle costolette, necessarie per il rituale della carne “alla fressóra” che regalava ai presenti il momento più atteso della mattinata. Il condimento prevedeva abbondanti spicchi d’aglio, rametti di rosmarino, peperoncino, sale e pezzetti di lardo. Gli stessi ingredienti venivano utilizzati per condire anche il grosso tegame colmo di patate fatte a pezzi, gustose almeno al pari della carne. Naturalmente il tutto veniva accompagnato da lauti bicchieri di vino cerasuolo fatto in casa; un “nettare” che non saziava mai l’arsura degli astanti. Perché l’evento al tempo era una vera occasione di festa ed innumerevoli sono gli aneddoti legati a questo “rito”.

Per il sezionamento (“ sparti’ ”) e la preparazione dei prodotti come salsicce, sanguinacci, salami, prosciutti, pancette, coppe o strutto si dovevano attendere uno o due giorni; nel frattempo, a parenti e vicini venivano distribuiti due, tre, quattro o più costolette. Come quella relativa al coinvolgimento di uomini e donne nella macellazione, anche questa era una consuetudine delicata e da rispettare con scrupolo. Se incautamente si risultava inadempienti nei confronti di qualcuno, si rischiava di urtare l’altrui suscettibilità e non c’erano ripari che tenessero; si poteva addirittura rimanere “‘n-collera” tra famiglie per lungo tempo. Della bestia macellata veniva conservata con cura ogni cosa, e tutto, incluso cotiche, lardo, frattaglie e “zampi”, veniva consumato con tanta parsimonia. Una minima quantità di lardo o di sugna si soffriggeva per preparare il sugo, per condire pasta, minestre e pietanze varie. “Gli sfrizzi”, ad esempio (i ciccioli residui del soffritto), si affogavano nei tagliolini (“i quagliatéjji”) e nelle “tagliarèlle” (i quadrucci). In alternativa si spalmavano sulla pizza di mais o sul pane “‘mbrascato” (fatto con farina di mais mista a quella di grano), quando erano ancora caldi.  Con l’arrivo dell’estate, del maiale rimaneva solo qualche fetta di ventresca, di lardo, un po’ di strutto e una minima parte di prosciutto. Di quest’ultimo, oltre alla cotica, si utilizzava anche l’osso per il condimento di pietanze a base di legumi; dopo l’utilizzo, il cosiddetto “assaporaturo” veniva prestato a quelli che lo richiedevano per farlo bollire di nuovo, sfruttandolo “fino all’osso” (Ignazio Silone, nostro conterraneo, descrive i dettagli del rituale nel suo capolavoro “Fontamara”).

A Cese non se ne conserva memoria esatta, ma fino agli anni ’60 in alcuni paesi dell’Abruzzo era diffusa la tradizione del “maiale pubblico”, chiamato anche il porco di Sant’Antonio. Come riportato dal De Nino, l’animale era libero di girovagare per il paese e di “elemosinare” nutrimento dagli abitanti che glielo fornivano di vero cuore. La bestiola, riconoscibile per un piccolo taglio che portava su un orecchio, a sera rincasava nel porcile più vicino, per tornare a circolare liberamente il giorno successivo. Nell’Alto Sangro, ad Ateleta, tale tradizione è rimasta viva fino alla fine degli anni ’70. Una commissione appositamente costituita provvedeva all’acquisto del maiale e il 17 gennaio, giorno della ricorrenza del Santo, nella pubblica piazza l’animale veniva benedetto prima di essere “sacrificato”. La carne veniva poi distribuita ai poveri che non potevano contare su certe prelibatezze e per l’occasione si organizzava anche una riffa con il cui ricavato si assicurava l’acquisto del maiale per l’anno successivo.  

<Articolo elaborato da testimonianze locali e ricerche personali>

2 risposte a “Il sacrificio del maiale”

  1. Leggendo questo ricordo dei tempi ahimè trascorsi troppo velocemente,mi ha riportato ai tempi che vedevo i miei nonni fare esattamente quello che hai scritto , ti faccio i miei complimenti bravo seguita così, e giusto mantenere viva la memoria delle nostre tradizioni. ❤❤

  2. Se ti riferisci all’uomo in secondo piano che regge il maiale e che è più vicino alla porta della stalla, non mi sembra nonno perché lui aveva il naso più grosso; mi sembra un figlio di Silvino, che era cugino di nonno. Quello che regge il gancio non è papà, non mi ricordo il nome, ma la persona sì. Sotto trovi la tua e-mail.

    Ciao a presto!

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