[Storia delle Cese n.44]
da Osvaldo Cipollone
Vincenzo Cipollone “de Papparéjjo” era nato il 9 novembre 1902. Nel 1993, alla veneranda età di 91 anni, è stato intervistato da Osvaldo Cipollone ed in quell’occasione ha condiviso con lui moltissimi dettagli della storia e delle tradizioni di Cese. E’ tuttavia sul tema del terremoto che il suo contributo assume un valore ineguagliabile; si tratta infatti di una delle rarissime testimonianze dirette sul tragico evento del 13 gennaio 1915, che Vincenzo ricordava in questo modo. Un estratto dell’intervista è riportato in calce al testo.
«All’epoca del terremoto avevo 12 anni e due mesi. Ricordo che quel giorno – siccome sono stato sempre un tipo mattiniero – quando arrivò il sacrestano per aprire la chiesa, io lo stavo già aspettando davanti alla porta. Tra l’altro era il padre di mio zio… Peppe “jo sacrastano”, no? Allora lui andò ad aprire la porta delle donne, dove mettevano un puntello, e io portai la chiave in sacrestia (chiudevano la chiesa dalla porta degli uomini). Solitamente era il prete ad indicare chi doveva servire la messa, segnando con il dito, e in teoria sarebbe toccato a me perché ero arrivato per primo, invece quella mattina disse “Fate la conta per vedere a chi tocca”. Allora toccò al compagno che mi stava a fianco, e che poi è rimasto sotto le macerie assieme al prete. Tant’è vero che avevano fatto pure una canzone: “A Cese d’Avezzano / c’era un sacerdote / che stava celebrando / pe’ alcuni suoi devoti / Quando la chiesa tutta crollò / con l’ostia in mano i prete restò”. Questo perché nel momento in cui il prete alzò l’ostia, fece il terremoto. L’ostia era già consacrata, ma il calice no.
Dei ragazzi che erano con me, alcuni si sono salvati… c’era mio fratello, c’era Antonino mio cugino, poi altri. Quelli che invece andarono al centro della chiesa, vicino ai genitori, sono morti. Si può dire che sono vivo per puro caso, perché se fosse toccato a me servire la messa, sarei rimasto lì.
Del momento del terremoto ricordo un grido forte… probabilmente gli adulti avevano già capito cosa stava succedendo. Io ho proprio visto il muro fare avanti e indietro, e poi cadere a terra. In quel momento si è alzata tanta polvere, non si respirava, non si vedeva niente; poi questa polvere se n’è andata e si è vista un po’ di luce, noi abbiamo scalato qualche pietra e siamo usciti. Alla cappella della Sacra Famiglia, che stava fuori dalla chiesa, c’era un arco; la parete sud della chiesa non è crollata, è rimasta in piedi fino al tetto, e allora ci siamo salvati, così come qualcun altro che era vicino alla parete accanto.
In chiesa sono morte circa 380 persone. Siccome c’erano state le “missioni” dei Redentoristi, che si erano chiuse il 4 di dicembre, in chiesa andavano tante persone. Quasi tutti andavano in chiesa alle Cese, per questo ci sono stati tanti morti, perché la chiesa era piena. A quel tempo Cese aveva circa 1.300 abitanti, e più di 700 sono morti con il terremoto. E con quelli che si sono salvati, più altri che stavano in America o altrove, si è ricreato un nucleo di circa 500 abitanti, più o meno.
I soccorsi a Cese sono stati un po’ tardivi, perché le squadre che arrivavano da Roma si fermavano a Cappelle, e da lì proseguivano per Avezzano, perché Avezzano era il centro conosciuto. Noi invece eravamo fuori mano, e quindi qui arrivarono dopo.
Gran parte dei morti della chiesa sono rimasti sotto le macerie. Quando sono arrivati i soldati del Genio, hanno abbattuto il muro più alto rimasto in piedi, hanno spianato tutto e c’hanno buttato sopra la calce in polvere. Poi su una pietra della balaustra hanno scritto “Qui riposano i morti del terremoto” e basta. Quelli che erano morti in casa, invece, li portavano al camposanto. Poi, sei-sette anni dopo il terremoto, hanno riscavato le macerie per sgombrare la chiesa, col permesso del prefetto, e alcuni di questi morti sono stati addirittura riconosciuti dai familiari, magari grazie agli abiti che indossavano; allora anche questi sono stati portati al cimitero.
Il paese prima era rotondo, tant’è vero che c’era una canzonetta che diceva: “Jo paéso è tunno tunno, e ‘na’mméso ci sta ‘no furno”. Era proprio un bel paesello, sì, ma contro il destino non c’è niente da fare».
<Tratto da un’intervista di Osvaldo Cipollone del 1993>


