[Storia delle Cese n.34]
da Osvaldo Cipollone
Dopo il terremoto del 1915 ed in seguito alle due guerre mondiali, erano molte le famiglie di Cese che avevano perso uno o più componenti. Le vedove che avevano anche figli da mantenere spesso passavano a seconde nozze; non sono stati rari i casi in cui, risposandosi, abbiano avuto figli da uomini che ne avevano già altri al seguito, poiché vedovi a loro volta. In tal modo poteva accadere che sotto lo stesso tetto coabitassero figli nati da tre matrimoni distinti e che dovevano ad ogni modo ritenersi fratelli.
Questa convivenza era spesso difficile e problematica, a causa delle diversità d’età, condizioni sociali, abitudini e persino dialetto (spesso marito e moglie erano di paesi diversi). In particolare, una donna di un paese vicino al nostro, rimasta vedova per la morte in guerra del marito (col quale aveva avuto due figli), si risposò con un uomo di Cese, che aveva perso la moglie durante il terremoto e che aveva tre figli coetanei di quelli della seconda consorte. Dal nuovo matrimonio nacquero altri due bambini che, crescendo, sebbene integrati nella famiglia, erano spesso bersaglio dei “fratelli” più grandi. I genitori, pur prendendo le difese dei più piccoli, non sempre potevano dare torto agli altri; così a volte, istintivamente, erano portati a prendere le parti dei rispettivi figli (ossia quelli nati dal primo matrimonio), altre volte cercavano di riportare la calma con imparzialità. In un’occasione particolare la donna, dopo aver assistito all’ennesima zuffa tra i ragazzi, rivelò sentitamente al marito, di ritorno dai campi: “Óji, i figli ti’ e ji figli mi’, hao menato ajji figli nóstri!”.
I problemi delle famiglie sì conformate non si limitavano a tali banalità ma nascevano anche da motivi di interesse economico, soprattutto a causa delle divisioni di proprietà, che ogni tanto causavano scontenti per torti veri o presunti. Quando, poi, una donna passava a seconde nozze con un uomo facoltoso, l’ostacolo era spesso rappresentato dalla compresenza di tanti aspiranti ad un’unica proprietà, così la seconda moglie pretendeva dal marito specifiche garanzie circa i propri diritti acquisiti. La soluzione, spesso, era il ricorso ad un particolare tipo di “contratto” in uso a quel tempo, con il quale, alla morte del coniuge firmatario, si riservava una certa proprietà – ed eventuali altri beni – a favore del legittimo consorte. Questo atto, detto in volgo “la ndufata”, tutelava la persona in vita da eventuali pretese ed usurpazioni da parte di altri familiari del defunto.
In termini legali, la natura di tale accordo non si discosta molto da quella della “legittima”, cioè quella parte del patrimonio ereditario di cui neanche l’eventuale testatore può disporre a piacimento. Con esso, molte donne hanno avuto garantiti beni o valori su cui gli eredi non potevano avanzare diritti di divisione né di estromissione della seconda moglie.
A volte è capitato che il valore stabilito per mezzo della ‘ndufata fosse di carattere monetario e quindi eccessivamente oneroso per gli altri eredi. Accadeva, allora, che per assolvere l’impegno assunto dal defunto, questi ultimi fossero costretti a lavorare gratuitamente – a volte anche per anni – per saldare il debito verso la beneficiaria. In altri casi alcuni eredi, non volendo tenere in vita obblighi di vitalizio assunti dal genitore defunto, di comune accordo con la beneficiaria hanno trasformato questo tipo di diritto in semplici intestazioni di case o terreni, mutando così un istituto nato con altri scopi.
<Tratto da Osvaldo Cipollone, “Orme di un borgo” (2002)>