La Dea Pale, i Campi Valentini e il Piano di Palenta

[Storia delle Cese n.33]
di Roberto Cipollone


La vita e la storia di Cese sono strettamente legati al territorio dei Piani Palentini, da sempre al centro delle vicende del paese non solo per gli aspetti economico-produttivi legati alla vocazione agreste del luogo, ma anche per la collocazione geografica e per le relazioni con gli altri paesi insistenti sulla piana. Ancora oggi è sui Piani Palentini che molti cesensi svolgono la propria attività agricola (più che di allevamento), mantenendo in vita una vocazione che affonda le proprie radici in tempi antichi.

Sebbene, infatti, non sia chiara l’origine del nome, l’ipotesi più probabile è che questo derivi da Pale (Pales), una divinità della mitologia romana che nella maggior parte dei casi viene identificata come una dea ed in rari casi come un dio o come una duplice figura[1]. Pale era, in ogni caso, la divinità della Natura, della pastorizia, protettrice degli allevatori e del bestiame contro gli incendi e i predatori.

Le feste a lei dedicate, chiamate appunto Palilia (o Parilia), sono tra le più antiche dei rituali romani e cadevano il 21 aprile, data in seguito associata anche alla fondazione di Roma[2]. Avevano un valore purificatorio e propiziatorio per i pastori, per il bestiame e per i campi, e si svolgevano in campagna e in città. In campagna il pastore all’alba adornava l’ingresso dell’ovile con rami di lauro. Lustrava il gregge con acqua, fumigazioni di zolfo e piante resinose e offriva alla dea focacce e latte[3]. Infine, volto a oriente, pregava quattro volte la dea invocandone il perdono per le eventuali offese arrecate alle divinità agresti nello svolgimento dell’attività e chiedendo protezione e prosperità. Venivano poi accesi grandi fuochi di paglia (non a caso “palea”, in latino) dentro cui i pastori saltavano come rito di purificazione. Tale rituale è dettagliatamente descritto da Ovidio nei suoi “Fasti”[4]. Si possono ritrovare tracce dello stesso rito, oltre che nelle usanze legate alle celebrazioni in onore di Sant’Antonio abate, anche in alcune usanze locali. A Secinaro, in particolare, si accendevano grandi falò e venivano purificati gli armenti e le greggi col fuoco e con l’acqua aspergendoli con un ramo di albero e chiedendo perdono e benedizione[5].

Nella Marsica, i cristiani hanno trasformato nella devozione a San Pelino il culto della Dea Pale. Presso i popoli sanniti e osco-umbri, infatti, la divinità era conosciuta con il nome di Perna, Penna o, appunto, Pelina. Con la romanizzazione, Pelino e Pennino finirono per diventare appellativi di Giove. Nell’era cristiana, infine, il culto della Dea Pelina e di Giove Pelino venne trasformato nel culto di San Pelino, che è presente nella Marsica abruzzese, ma conserva anche delle affinità con il culto di Sant’Antonio[6].

Tornando alla denominazione dei “Piani Palentini”, è necessario evidenziare una seconda ipotesi riportata, in maniera piuttosto limitata in realtà, dal Corsignani, che nella sua “Reggia marsicana” (1738) fa cenno ad una distrutta chiesa di San Valentino di cui tuttavia non descrive collocazione né origine. Secondo tale ipotesi, dunque, la piana sarebbe stata detta di “San Valentino”, denominazione poi evoluta in “Campi (o Piani) Valentini”. Scrive il Corsignani: “Rendono inoltre ammirabile la detta Terra i famosi Campi Valentini, così anticamente appellati da una Chiesa disfatta di San Valentino, e poi detti Palentini, ovvero del Piano di Palenta tanto rinomato nelle Storie per la Sconfitta quivi accaduta all’esercito di Corradino di Stouffen…”.

Anche il Corsignani fa riferimento ad un’altra denominazione vicina a quella attuale, ossia “Piano di Palenta”, come era chiamata la zona soprattutto durante il medioevo. Il riferimento specifico è a Pandolfo Collennuccio che nel Compendio de le istorie del Regno di Napoli del 1539, sempre in relazione alla battaglia tra Corradino e Carlo d’Angiò, scrive: “Lí intendendo che il re Carlo ancor lui veniva, né era molto lontano, cominciorno ad andare ordinati e stretti in squadra, lasciando da man destra le muraglie antique de li acquedotti che conducevano da quel lago (di Celano) a Roma l’acqua, e giunsero in una pianura sopra il lago, chiamata il piano di Palenta, ovvero li campi Palentini. Ha questo piano da man destra il lago, da la sinistra li monti de’ Marsi altissimi che lo circondano, e dinnanzi in fronte è una collina che chiude quel piano: e comincia a la terra di Alba e si estende circa un miglio e un quarto. Di lá da quella collina è una valletta di giro di circa un miglio, cava talmente, che dal piano di Palenta non si può in quella alcuna cosa vedere. In questo piano di Palenta adunque si condusse Corradino col suo esercito con proposito di fare fatto d’arme”.

Una citazione più vicina ai nostri giorni torna sul riferimento alla dea Pale, aggiungendo la rara immagine di tre “mietitori dei campi palentini” i quali, secondo quanto riportato dall’autore Emidio Agostinoni nel 1908, erano in cammino verso altri paesi “ricchi di messi più che di braccia”. In particolare, facendo riferimento alla ricerca dell’emissario, Agostinoni scrive: “La salita si compie facilmente per un viottolo; e di lassù, da una parte si vede Fucino pezzato di verde e d’oro, dall’altra i campi Palentini sacri alla dea Pale ed ai suoi pastori, tutto un campo giallo di frumento segato. Tre mietitori in cammino per altri paesi ricchi di messi più che di braccia, m’insegnano la strada dalla parte dello sbocco, verso la gola di Capistrello…”[7]. Dalla forma verbale non si riesce a capire se i mietitori fossero partiti o arrivati nei piani palentini, ma il valore della testimonianza (soprattutto di quella fotografica) resta intatto.

Nel linguaggio parlato, oggi come in passato a Cese si fa raramente riferimento ai “piani palentini”; molto più frequente e diffuso è invece il riferimento alle specifiche zone della campagna, anch’esse portatrici e custodi di storie antiche.


[1] Sarebbe forse per questo motivo che nell’antica Roma si celebravano due Pali, uno il 21 aprile e l’altro il 7 luglio nel Calendario pre-cesareo.

[2] “Per la coincidenza tra l’anniversario della fondazione di Roma e la festa della pastorizia, Varrone richiamava il fatto che Romolo e Remo erano stati allevati da un pastore. Il riferimento alla fondazione di Roma è riportato nei Fasti Antiates e nei Fasti Esquilini, che registrano anche l’inizio dell’anno pastorale: annus pastoricius incipit” (Segenni).

[3] Nicola Turchi – Enciclopedia Italiana (1935)

[4] Per la purificazione del bestiame venivano spazzati e lavati gli ovili e adornati con ghirlande di fronde e fiori, e si producevano scure fumate di zolfo, nel fuoco venivano bruciati olivi maschi e herba sabina, come dice Ovidio, cioè ginepro, e rami di alloro. Alla dea Pales, protettrice della pastorizia, venivano offerti prodotti esclusivamente vegetali, focacce di miglio e latte, che venivano ritualmente consumati dai partecipanti. La dea veniva pregata perché proteggesse greggi e pastori, perché perdonasse il pastore se aveva fatto pascolare le greggi in terreni consacrati; se si era seduto sotto un albero sacro, se era entrato in un bosco, un nemus, proibito, se con la falce aveva spogliato di un ombroso ramo, un lucus, un bosco sacro, se aveva messo a riparo il gregge, mentre grandinava, in un fanum, in un tempio agreste, se il gregge aveva intorbidato le fonti e le acque. Si chiedeva alla dea di placare le fonti, i numi delle fonti, e gli dei sparsi in ogni nemus. Veniva richiesta alla dea la protezione delle greggi dalle malattie e dai lupi, e si pregava la dea perché abbondassero erbe e fronde e acque, affinché favorisse i parti e la produzione della lana e del latte. Questo era il contenuto della preghiera alla dea, che doveva essere pronunciata quattro volte, rivolti a oriente. Poi lavate le mani, si beveva bianco latte e purpurea sapa e si attraversava, saltando, il fuoco, “mucchi in fiamme di crepitanti stoppie”. Simonetta Segenni, “Feste e agricoltura: il ciclo agrario del calendario romano”, in L’agricoltura in età romana, 2019.

[5] “Benedici la mandria e perdona se a volte siamo entrati nei boschetti a te consacrati e, ignorando il tuo nome, abbiamo tolto foglie al ramo per una pecora malata; perdona se le bestie intorbidarono involontariamente l’acqua chiara della tua fonte” (Toppeta).

[6] Luigi Pellini

[7] Emidio Agostinoni, “Il fucino”, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo 1908


<Testo originale rielaborato dai riferimenti riportate nelle note>


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