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Il giorno delle nozze

[Storia delle Cese n.25]
da Osvaldo Cipollone

Agli inizi del ventesimo secolo il vestito della sposa non era necessariamente bianco, ma di sovente aveva tonalità pastello. Lo spreco non era ammissibile, dunque bisognava fare in modo che le donne potessero indossare il capo anche in altre occasioni importanti. Molte giovani chiedevano il vestito in prestito alle donne che portavano la loro stessa taglia, con la promessa di restituire l’abito dopo la cerimonia. Il vestito bianco era comunque molto apprezzato e chi poteva permetterselo lo indossava con gioia, sebbene a costo di sacrifici significativi. Per lo sposo non sussisteva questo genere di problemi, poiché l’acquisto di un abito nuovo poteva sempre costituire “un investimento” ammortizzabile nel tempo.

Anche l’anello nuziale poteva essere un optional. Se la suocera aveva disponibilità economiche lo acquistava, altrimenti lo chiedeva in prestito. In alcuni casi poteva essere un problema anche procurarsi una fede “pazza” (non d’oro). A dire il vero, la maggior parte delle donne si accontentava della vera ricavata da una moneta di rame opportunamente tornita. Anche le foto erano rarissime, così come il bouquet, che poteva essere composto anche da fiori spontanei o di facile reperimento.

Difficilmente le donne partecipavano al corteo e al rito liturgico. Occupate in cucina affianco ai “cuochi”, erano loro la forza motrice dell’apparato organizzativo, per cui risultavano sempre impegnate a portare a termine tutti i preparativi. Ne conseguiva che, nonostante la centralità sacramentale della messa, la presenza delle familiari era spesso limitata a poche unità.

A quel tempo le unioni venivano celebrata solo in chiesa, normalmente d’inverno, ed il pranzo era allestito rigorosamente in casa. La scelta della stagione era quasi obbligata, poiché in quel periodo le famiglie non erano impegnate nel lavoro dei campi, le botti ed i granai erano pieni e, se il raccolto era stato propizio, non si lesinavano quantità ed abbondanza delle pietanze.

Gli invitati partecipavano alla funzione liturgica e al pranzo indossando il vestito “buono” in loro possesso. Anche il folclore era limitato, così come i confetti che anticipavano il lancio del riso. I curiosi e le frotte di ragazzi si rivolgevano al corteo e agli sposi gridando in maniera interessata: «Non ji tè’, ji tè’, ji tè’…». Ed anche «Ècco la spósa, tutta pomposa… Apri la cascia e dacci caccósa!». Allo “sfottò” seguiva il lancio di “cannellini” e di qualche “combètta” che i ragazzi arraffavano con gioia.

Una settimana prima della data si sgomberavano locali, si chiedevano in prestito tavoli e sedie, si facevano provviste di piatti, bicchieri, vassoi, posate, paioli, tegame, fiaschi e tovaglioli. Il materiale veniva catalogato e distinto con tacche, imbastiture e fiocchi, segni che permettevano un’agevole restituzione degli oggetti a festa terminata. Si coinvolgevano cuochi, massaie, lavapiatti ed inservienti. Tutto il rione degli sposi respirava gli odori ed i sapori della festa ed assisteva ad un via-vai di gente, stoviglie, vivande e “parannanzi”. Ragazzi giocosi, gioiosi e golosi si avvicinavano sornioni per ricevere un dolcetto, un pezzo di “chiòrtajo” o addirittura una fetta di pane ed olio.

Gli invitati attendevano con ansia l’evento anche per degustare il pranzo, che era altresì occasione di rifocillamento in un’epoca avara di abbondanze. All’ora convenuta, attendevano che lo sposo o uno dei suoi familiari passassero a chiamarli. Dopo questa formalità, raggiungevano l’abitazione delle “nozze” per prendere parte al banchetto. Il fatto che il menu del pranzo prevedesse più vivande non inibiva affatto i commensali; era anzi motivo di scorpacciate e “sbornie”.

Apriva la lunga serie di piatti un semplice antipasto, seguito rigorosamente dal brodo con stracciatella e frattaglie. Si passava quindi alla pastasciutta, “i maccaruni”; di solito si trattava di spaghetti o bucatini. La prima portata di carne prevedeva un quarto di pollo per ogni commensale. C’era poi la carne di pecora al sugo, seguita dallo spezzatino d’agnello cucinato “cascio e òva” ed infine l’arrosto. Tutte le portate erano accompagnate da contorni di verdure, insalate e patate. Attesissimi erano i “frittéjji” di latte e le fette d’arancia cosparse di zucchero. I dolciumi e la “pizza dorge” (tipo pan di spagna) chiudevano la serie. Al momento dell’arrosto si dava spazio a discorsi, sonetti, canti, scherzi e scenette interpretate da “attori” consumati e provetti “menestrelli”. Questi, per esibirsi, salivano su sedie traballanti o addirittura sui tavoli. Il più delle volte non erano tanto gli incitamenti a stimolare gli “artisti”, quando l’euforia della festa e dei brindisi.

Estemporanee “performance” andavano inoltre ad intervallare le numerose portate, creando così dei simpatici intermezzi. In quei momenti gli sposi venivano legati tra loro con canovacci, tovaglioli, cinte o stringhe e dovevano assistere all’evolversi del rituale, pressoché doveroso, in quella scomoda posizione. Il fratello dello sposo (o in sua mancanza un cugino) attendeva inoltre che un fratello della sposa lo omaggiasse con una gallina viva. Ricevuto il volatile, quindi, lo sollevava per le zampe e lo mostrava ai commensali. L’animale diveniva, così, un trofeo starnazzante, mentre i commensali vicini cercavano di evitare che le piume (ed “altro”) cadessero nei piatti. Il protagonista intanto continuava a tenere sollevata la gallina in segno di vittoria e goliardia; alla fine, mostrandola all’ex proprietario, lo ringraziava ironicamente: «Pe’ ‘na cajjinèlla te si levata ‘na sorella…». Quello poteva rispondergli: «Te nne téngo una più rròssa se tte spusi zìa ch’è ciòppa a ‘na còssa». Risate, applausi e brindisi chiudevano ogni intervento con calore.

Un’altra “scenetta” che non ha avuto poi seguito per fattori contingenti coinvolgeva gli sposi stessi. I due, in segno di gratitudine, inviavano ai rispettivi genitori due bicchieri di vino con dentro cinque confetti. Quelli, dopo averli svuotati, rimandavano i bicchieri ai mittenti ricambiando la gentilezza con mille lire arrotolate all’interno. Siccome non tutte le famiglie potevano permettersi tale omaggio, la consuetudine è scomparsa quasi subito, senza trovare posto tra le tradizioni consolidate nel tempo.

A Cese la torta nuziale, gli spumanti e gli amari non erano ancora stati scoperti al tempo. In compenso abbondavano le mescite di “americanéjjo”. Il gradevole vinello, imbottigliato qualche giorno prima, non riusciva quasi mai a saziare la gola dei più “assetati”; in compenso, però, lasciava vistose macchie sulle bianche camicie dei commensali. Le innocenti disattenzioni regalavano comunque scene disincantate e conferivano all’evento un’atmosfera bucolica e “paesana”. La fine del pranzo era impreziosita da balli e coreografie estemporanee, spesso sollecitate dall’euforia dei numerosi “bicchieri”, più che dalle note dei “du’ bòtte”, i tipici organetti del tempo.

<Tratto da Osvaldo Cipollone, “Le nozze di canapa” (2016)>

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