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La passatèlla

[Storia delle Cese n.11]
da Osvaldo Cipollone (con il contributo di Michele Cipollone)

Oltre al gioco delle bocce ed alla morra, gli uomini di Cese praticavano (e praticano) volentieri anche quello delle carte. Una caratteristica del tutto particolare risiedeva nel fatto che al termine di ogni partita si svolgeva la “primiera” a cui seguiva la “passatella”, con cui taluni erano autorizzati a bere il vino messo in posta, ed altri costretti ad assistere pazientemente, sperando nel turno successivo; per molti rappresentava la meta più ambita poiché, oltre all’eventuale bevuta, poteva r’servare sicuro divertimento.

La passatella ha le proprie figure tipiche e le cariche si originano dalla “contrattazione” che avviene durante il gioco tra chi è di mano e chi nello stesso momento ha il punto maggiore; naturalmente, la definizione delle cariche, oltre che dalla contrattazione, dipende dall’esito della mano stessa. La gerarchia della passatella “cesaròla” può essere riassunta secondo due schemi; il primo: 1) Patróno; 2) Sott’e patrono (sotto); 3) Vasto o guasto; 4) Mi-ricordo; 5) Morte; 6) Mazzo de scopa. Nel secondo schema, le prime due figure sono sostituite da altrettanti sénz’e sénzo(a) che hanno pari poteri e prendono le decisioni di comune accordo, a volte anche contrattando fra loro stessi. I ruoli, le competenze e le facoltà sono invece così sintetizzabili, in linea di massima.

1) Jo patróno ha facoltà di bere quando vuole ed è colui che “invita” gli altri giocatori. Può anche riservare per sé l’intera posta in palio, se è l’unico titolare; se invece ha scelto (o si è legato con) un sotto, è obbligato a concedere a quest’ultimo almeno una minima parte (jo goccitto) o un bicchiere. Questo a prescindere dal fatto che jo sotto abbia bevuto togliendo i bicchieri ai giocatori “invitati” da jo patrono. Poteva capitare, soprattutto in passato, che jo patrono versasse jo goccitto del sotto addirittura sul fondo del bicchiere, rovesciato!
2) Jo sotto può bere, se vuole, tutte le quote che jo patrono “manda” agli altri, ma può anche ridestinarle a proprio piacimento.
3) Jo vasto (o guasto), se c’è, subentra dopo le decisioni del sotto, riservandosi o variando le “destinazioni” non condivise. Secondo l’esito e gli sviluppi del gioco, anche jo vasto può rimanere ólemo (cioè non bere), se patróno e sotto (o sénzi-e-sénzi) bevono sempre.
4) Mi-ricordo può avere eventualmente diritto a bere se esprime tale volontà nel momento in cui jo patróno o uno dei sénzi versa il vino nei bicchieri. Questo è l’unico intervento concesso al mi-ricordo; i “comandanti” possono però dargli facoltà di bere se non lo fanno essi stessi. Può capitare che anche il mi-ricordo resti ólemo, o che – per decisione dei “comandanti” – gli sia consentito di bere un numero minore dei bicchieri che “ricorda”.
5) La morte può bere soltanto bicchieri liberi o lasciati senza condizioni.
6) Stesso scarso potere è concesso al mazzo de scopa, figura poco usata, quasi simbolica ed investita solo quando i giocatori che partecipano alla passatella sono tanti

È anche da sottolineare che i bicchieri riservati o concordati prima o durante l’investitura di altre cariche vanno sempre onorati, a prescindere dalle decisioni prese successivamente, pena una nuova “ordinazione” (recacciata) dell’intera posta in palio, a carico di coloro che non hanno rispettato il vincolo. La figura meno gradita della passatella, dunque, e che non rientra nello schema, è quella de j’ólemo, a cui non viene concesso neanche un bicchiere durante lo svolgimento del gioco. Magra consolazione per lui sapere che l’origine del termine affonda le proprie radici in tempi antichi, quando chi aveva perso una causa (dibattuta all’aperto, spesso sotto un grande albero come una quercia o un olmo, appunto), anziché festeggiare nelle osterie vicine, rimaneva “all’asciutto” sotto l’albero: ajj’ólemo.

Le origini della passatella sono da rintracciare nella Roma antica, sebbene fu nella Roma dei Papi che il gioco trovò massima diffusione – soprattutto nelle osterie – con il nome di “Regnum vini” (regno del vino). Al tempo, con un lancio di 4 dadi da parte di ciascun giocatore veniva eletto il “Rex” (re), che per ricevere questa carica doveva avere la fortuna di ottenere punti diversi. Il passaggio dai dadi alle carte deve essere avvenuto intorno agli inizi del XV secolo, periodo in cui l’uso delle carte da gioco provenienti dalla Cina si diffuse rapidamente. A causa della sua natura, il gioco degenerava spesso in rissa, così la passatella (come la morra) fu proibita con sanzioni che andavano dalla multa al carcere; tuttavia continuò ad essere giocata per lunghi anni clandestinamente.

Per estensione, il termine “passatella” viene utilizzato nellʹItalia centro‐meridionale per una serie di giochi che hanno il fine di bere in compagnia, fortunatamente con esiti meno cruenti di un tempo, anche se fino a sessanta anni fa poteva ancora essere causa di diatribe e alterchi, come ben racconta Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli: «La passatella è il gioco più comune quaggiù: è il gioco dei contadini. Nei giorni di festa, nelle lunghe sere d’ inverno, essi si trovano nelle grotte del vino, a giocarla. Ma spesso finisce male; se non sempre a coltellate come quel giorno, in litigi e baruffe. La passatella, più che un gioco, è un torneo di oratoria contadina, dove si sfogano, in interminabili giri di parole, tutti i rancori, gli odi, le rivendicazioni represse».

A Cese, tuttavia, i racconti legate alle “passatèlle” tendono quasi unicamente verso un tono scherzoso, di scherno bonario, di beffe e di rivincite. Tra i tanti aneddoti dei più anziani, si racconta in particolare che una volta la primièra fu a totale appannaggio di un giocatore che era rimasto “ólemo” per tutto il pomeriggio (era stato l’unico a non aver mai bevuto). In quell’occasione, visti i tanti partecipanti, c’erano in palio ben due litri di vino; gli sviluppi del gioco e le “autorizzazioni alla bevuta” potevano dunque essere svariati. Nonostante questo, però, il vino si “incanalò” su un unico binario, perché il vincitore, un bicchiere alla volta, lo bevve tutto. Nessuno dei presenti avrebbe mai immaginato che si sarebbe vendicato in tal modo dell’affronto precedentemente subito, né che sarebbe riuscito a reggere tutta la bevanda da solo, senza offrirne neanche a chi mai aveva comandato prima (pur riuscendo a bere per bontà altrui). Alla fine il vincitore fu preso da un’irrefrenabile risata e cominciò a girovagare sorreggendosi ad ogni appiglio, per rimanere in equilibrio (tanto da dover essere sorretto e messo nuovamente a sedere). Così, mentre tutti riprendevano i propri attrezzi per far ritorno a casa, il vincitore continuava a ridere barcollando sulla sedia. In quattro, allora, decisero di ricondurlo verso la sua abitazione (poco distante) portandolo “in trionfo”. Euforicamente “sollevato”, l’uomo allora pensò bene di alzare la mano destra con tre dita spiegate e “benedire” tutti coloro che assistevano alla spassosa scena. Per tutto il tragitto continuò a benedire sorridendo beatamente, mentre i quattro che lo sostenevano in viaggio faticavano per il peso e per le risate.

<Rielaborato da O.Cipollone, “Orme di un borgo” (2002), e da due articoli de La Voce delle Cese curati da Osvaldo Cipollone (2006) e Michele Cipollone (2007)>


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