[Storia delle Cese n.93]
di Roberto Cipollone
Cese ed i piani palentini hanno sempre mantenuto una vocazione agricola propria, distinta da quella del Fucino in quanto (giustamente) orientata verso quelle colture maggiormente adatte alle caratteristiche ed alle peculiarità del territorio. Il tratto che differenzia maggiormente la campagna palentina da quella fucense è certamente legato alla parcellizzazione dei terreni ed alla minore presenza di latifondi e grandi proprietà da questa parte del territorio marsicano[1].
In questo quadro, tuttavia, sono esistite in passato influenze forti determinate dall’evoluzione del sistema produttivo-economico nella conca del Fucino. Il riferimento principale, in questo caso, è allo sviluppo della bieticoltura, legato a sua volta alla costruzione dello zuccherificio di Avezzano, reso completamente funzionante tra il 1902 e il 1903. Come noto, nella società italo-tedesca che avviò l’opera nel 1897 avevano ruolo anche i Torlonia, che concentrarono in quella direzione i propri interessi alcuni anni dopo il prosciugamento e la bonifica del lago[2]. I contadini fucensi si trovarono così costretti a lavorare sulla monocultura intensiva della barbabietola da zucchero e a vendere il prodotto ai prezzi imposti dalla compagnia[3]. Si generarono parallelamente diverse attività connesse allo zuccherificio (come il trasporto su rotaia “a scartamento ridotto”) ed alla produzione dello zucchero, dalle fornaci per la lavorazione di calce e laterizio alle officine meccaniche e alle distillerie per la produzione di alcool etilico. L’economia legata alla coltivazione delle barbabietole crebbe negli anni ’20 e ‘30 a vantaggio esclusivo dei Torlonia e dei grandi proprietari, ma fu nel secondo dopoguerra, a seguito della riforma fondiaria, che la crescita divenne esponenziale. Come riportato da Antonella Saragosa, “negli anni che seguirono la riforma del 1950, fino alla fine degli anni 70 del Novecento, le colture principali rimasero quelle delle patate della varietà Tonda di Berlino, delle barbabietole e del grano fucense tenero, ovviamente con un notevole incremento della resa, pari a circa il 70% per grano e patate e triplicato per le barbabietole”[4]. In quegli anni, scongiurato il ridimensionamento della bieticoltura[5], a quello di Avezzano si affiancò anche un secondo zuccherificio, costruito a Strada 14, nel comune di Celano.
Questo secondo sviluppo ha influito in maniera importante anche sull’agricoltura palentina, “invogliata” dal mercato ad assecondare la crescente richiesta di barbabietole da zucchero. È stato così che tale coltura si è sviluppata anche a Cese e si sono succedute anno dopo anno importanti “campagne saccarifere”. Secondo le testimonianze locali, le prime coltivazioni hanno preso piede subito dopo la tentata iniziativa delle colture sperimentali da parte dell’imprenditore Confortini; come noto, questa iniziativa venne realizzata in maniera del tutto marginale rispetto al progetto iniziale, ma sortì comunque l’effetto di dare impulso all’azione degli agricoltori locali. Inizialmente la lavorazione era totalmente manuale, dalla semina alla sfoltitura (con la “rasora”) fino alla rimozione delle erbacce e poi alla raccolta e all’ammasso. La fase più faticosa era senz’altro quella della cavatura (“lo recava’”), poiché aveva luogo tra ottobre e novembre, con le ovvie difficoltà legate alle piogge ed allo stato fangoso dei terreni. Le barbabietole venivano tirate fuori con il rampino, “scollettate” a mano “co’ jo sarricchio” (il falcetto) e poi trasportate ed ammassate sui carretti tramite “biunzi” (bigonce) e altri contenitori. Solo in un secondo momento sono entrati in gioco macchine agricole e rimorchi, che attraversavano il nostro paese sia in ingresso che in uscita. Ogni carico doveva infatti essere controllato e registrato in una delle due “pese” presenti a Cese: una all’Ara e l’altra dov’è attualmente la legnaia nei pressi di Colle Streppito. In tali “pese” venivano convogliati i carichi provenienti anche dai paesi vicini, ossia Scurcola, Villa San Sebastiano, Cappelle, Corcumello e Capistrello (mentre Magliano utilizzava la struttura della “Cardosa”). In questi due punti avveniva dunque l’ammasso delle barbabietole, che dovevano essere necessariamente sorvegliate da altrettanti guardiani notturni armati di fucile (ruolo svolto nel tempo da diversi uomini di Cese). Con la registrazione veniva stabilita la percentuale di tara da applicare al carico e tale operazione prevedeva quasi sempre una sorta di contrattazione tra coltivatori e azienda, con il tramite delle organizzazioni sindacali che sceglievano i propri rappresentanti locali. C’erano sigle di destra, di sinistra e del movimento democristiano e normalmente si trovavano concordi nella definizione delle percentuali di tara da applicare, che venivano stabilite appunto dopo una vera e propria contrattazione; l’azienda partiva spesso da un 9-10% di tara, i coltivatori rispondevano con un 5-6% ed i rappresentanti sindacali proponevano magari una chiusura al 7-8%. Poteva anche accadere che le parti non trovassero un accordo sulla tara da applicare e rimanessero sulle proprie posizioni (“Le barbabbiete me’ so’ già polite, non ci sta manco ‘na crìa de terra!”, era la ferma posizione di alcuni produttori); in questi casi, si procedeva a prelevare un campione del carico inserendolo in un sacchetto che veniva poi portato in sede per verificare – sempre sotto il controllo dei rappresentanti dei lavoratori – l’effettiva percentuale di tara da applicare.

Nel tempo, il volume si è ampliato a tal punto che il trasporto delle barbabietole da Cese allo zuccherificio di Avezzano avveniva tramite autotreni. Lo sviluppo della bieticoltura ha impattato positivamente sull’intera economia del nostro paese, non solo per i lavoratori coinvolti nelle campagne saccarifere ma anche per i produttori, che con sacrificio hanno potuto investire in terreni e mezzi, e spesso finanziare in questo modo il percorso di studio dei figli. A proposito delle citate campagne saccarifere, c’è da aggiungere che molti nostri compaesani in quegli anni hanno avuto la possibilità di lavorare a stagione o a chiamata anche all’interno dello zuccherificio. “Papà andava in bicicletta con qualche compagno”, mi racconta mio padre Osvaldo “e insieme attraversavano il traforo ferroviario per raggiungere Fucino portando la bici a mano e regolandosi con gli orari dei treni che oramai avevano imparato a conoscere”. La bieticoltura ha inoltre portato con sé una seconda economia legata ai prodotti di scarto; tanti, ad esempio, erano quelli che andavano a caricare la “ciancia” (scarto di lavorazione) pagando importi concordati a seconda del caso. Gli scarti della melassa venivano invece concessi gratuitamente a chi si recava a prenderla, in piccole quantità, direttamente presso lo zuccherificio; a Cese tale consuetudine non si è diffusa, mentre a Capistrello c’era chi andava a prenderla addirittura con la conca. Diverse erano le persone che acquistavano lo zucchero direttamente in fabbrica, in sacchi da cinquanta chili (magari da dividere con altri), per poi travasarlo con la “saparchia” ed utilizzarlo nel corso dell’intero anno. “Mamma cucinava le foglie delle bietole come verdura”, mi racconta ancora mio padre, “e quando metteva a bollire le patate, a volte aggiungeva anche un paio di barbabietole che poi mangiavamo assieme al resto”.
Le campagne saccarifere si sono succedute anche a Cese con un’intensità proporzionata a quella fucense; a partire dagli anni ’80 il volume della produzione è andato progressivamente scendendo, anche a causa di un calo della resa legato “sia alla degradazione del suolo, troppo sfruttato, che all’attacco di parassiti nematodi, la qual cosa procurava problemi anche agli Zuccherifici di Celano e di Avezzano, che si trovavano a dover ridurre drasticamente la produzione di zucchero”[6]. In seguito alla chiusura dei due zuccherifici (Avezzano nel 1986 e Celano, dopo alterne vicende, nel 2008), nel Fucino la monocultura intensiva della barbabietola è stata abbandonata a favore di colture orticole, che oggi occupano il 90% della superficie coltivabile. Parallelamente la bieticoltura è stata progressivamente abbandonata anche nei piani palentini, dopo gli anni di grande diffusione di cui restano solo rare, nostalgiche, bellissime fotografie.
[1] Osvaldo Cipollone: “Anche la mezzadria, utilizzata altrove dai vari Vetoli, Masciarelli, Di Clemente, Placidi… a Cese ha avuto un ruolo marginale ed in qualche caso ha mutato natura virando verso quei “vitalizi” che assicuravano una rendita costante a proprietari come “don” Alisandro Vetoli e da “dun” Giuanni Saturnini”.
[2] Ha scritto L. Bacchetta in “C’era una volta un lago”: “Dans l’espace d’un matin, il pescatore si è ritrovato agricoltore e, sotto i mucchi, al posto dei barbi, va raccogliendo le barbabietole” (da Terradabruzzo.com).
[3] Antonella Saragosa scrive ne “La gestione dei terreni strappati al lago”: “Nel 1929 furono stabilite le nuove norme contrattuali di affitto, sancite del “Lodo Bottai”: il documento si rivelò, ancora una volta, a esclusivo vantaggio di Torlonia, che ottenne un aumento dei canoni di affitto, l’obbligo di coltivare parte dei terreni a barbabietole e il pagamento di un affitto particolare per i terreni non coltivati a barbabietole, calcolato sulla base del valore della produzione di queste ultime per ettaro. Ovvero chi non coltivava questo prodotto comunque doveva pagare ai padroni il reddito, che questi avrebbero guadagnato con quella coltura. La situazione rimase invariata fino agli anni della riforma fondiaria, nonostante le continue rivendicazioni dei contadini”.
Carlo Emilio Gadda, nel suo “Un romanzo giallo nella geologia”, descriveva così i contadini fucensi visti nel 1934: “Il morello s’impenna all’incontro de’ buoi bianchi e lenti, che vanno trainando allo zuccherificio carri campestri, colmi di barbabietole. I contadini guidano dall’alto, seduti sul carico. Hanno dei visi calmi e seri: neri sguardi dal bruno della fatica: gli zigomi cadono a piombo sulle mascelle, la parte bassa del volto è come un duro quadrato, col mento in avanti. Sui loro occhi, oscuri da parer torvi, noi passiamo ridestandoli: noi, imagini dell’amministrazione messe in velocità dal cavallo”.
Per un’analisi storica si veda Costantino Felice, “Azienda modello o latifondo? Il Fucino dal prosciugamento alla riforma”.
[4] Antonella Saragosa. “L’agricoltura dal prosciugamento a oggi” in “Fucino oggi: un mondo diverso”.
[5] Il Decreto Ministeriale 26.1.1960, limitando la coltivazione delle barbabietole, rischiava di influire negativamente sull’economia marsicana, tanto che nello stesso anno si registrarono diverse manifestazioni anche ad Avezzano. L’Ente Fucino decise allora di intervenire attraverso lo “Zuccherificio del Fucino” di Celano, entrato in funzione nel 1961.
[6] http://www.aiadeimusei.it/wp-content/uploads/2021/01/libro_FUCINO_OGGI.pdf
<Articolo originale elaborato sulla base di testimonianze locali e fonti citate>






Video Istituto Luce: “Il prosciugamento della piana del Fucino: le attività agricole e l’allevamento” (attorno al minuto 1:00 si vedono le attività di carico delle barbabietole ed il trenino per il trasporto)