[Storia delle Cese n.66]
di Osvaldo Cipollone
Un tempo la vita in campagna occupava la quasi totalità del tempo anche per i più giovani. Dopo il periodo della mietitura e quello della trebbiatura, ad esempio, i ragazzi erano soliti darsi una rinfrescata nel vicino fiumiciattolo del paese, la Ràfia. Di solito prediligevano i punti in cui il letto del fiume presentava avvallamenti più profondi, “i cupuni”, in quanto più idonei ad una nuotata. Dopo essersi tolti scarpe ed indumenti, molti rimanevano in slip; altri si toglievano perfino quelli. Scendevano quindi nel greto e, pieni di euforia, iniziavano a sguazzare in libertà, intorbidendo quell’acqua che al tempo era limpida, urlando a più non posso e facendosi reciproci scherzi che potevano risultare anche pericolosi. Alcuni, dopo essere rimasti a lungo in ammollo, risalivano sulla sponda rivestendosi di tutto punto, per poi nascondere i vestiti agli altri ignari e incalliti amici nuotatori. Quando questi ultimi uscivano a loro volta dal fiume, trovavano la sgradita sorpresa e dovevano sudare le fatidiche sette camicie prima di poter recuperare quella da indossare, assieme a scarpe e pantaloni.
In queste situazioni, qualcuno più esperto si attardava nel fiumiciattolo per pescare, facendo spesso scorta soprattutto di lasche, pesce che abbondava nel torrente. Le prede più ricercate, tuttavia, erano le rane, che venivano catturate con le mani da chi aveva dimestichezza. Acquattandosi adeguatamente in acqua, con movimenti dapprima guardinghi, poi fulminei ed immediati, le afferravano tempestivamente, trattenendole per non farle rituffare, provvedevano poi a stordirle con una manata sulla testa per infilzarle infine (“ahi loro!”) con un fil di ferro. Le viscide prede venivano poi spellate e pulite per essere cucinate dalle madri che le condivano con pan grattato e uova per indorarle friggendole alla “fressóra”. In alternativa potevano essere fatte al sugo per poi essere consumate con l’intingolo “prosciugato” da tanto pane. Spesso, però, i solerti pescatori si gettavano in quell’arduo compito con l’obiettivo di raggranellare qualche spicciolo necessario ai propri sfizi. Alcuni componevano una sfilza di rane a mo’ di treccia e le proponevano in vendita alle persone dal palato più fine che abitavano in paese: professori, ufficiale postale, medico e parroco. Solitamente erano costoro che si rivolgevano ai provetti pescatori dicendo loro: “Quando torni a pescare, portami le rane”.
Per le nuotate più sofisticate, i tuffi dal ponticello e la pesca più “esperta”, invece, alcuni ragazzi del posto si recavano a piedi o in bici “ajjo canalo”, un tratto del fiume Imele che dista poco più di un chilometro da Cese (una stradina di campagna, infatti, accorcia la distanza che separa il paese da quel posto). In quelle acque, più profonde e dal flusso più copioso, infatti, si potevano recuperare le “cuccie”, una tipologia di cozze nostrane, ma soprattutto rane, tinche, trote, capitoni e gamberi. Per la pesca di queste prelibatezze occorreva immergersi completamente nel fondo e rimanere sott’acqua per più tempo. Alcuni, dopo aver individuato le “prede”, si tuffavano a più riprese sott’acqua rimanendo in apnea. Per evitare che i capitoni sfuggissero alla presa sfruttando la pelle viscida, i più temerari avevano escogitato un proprio sistema: dopo aver provato a catturarli dentro le loro tane (fatte di lunghi buchi), se non riuscivano a stanarli li infilzavano ancora vivi con i rebbi di una forchetta. In tal modo, aiutandosi anche con l’altra mano, riuscivano nell’impresa. Trasportavano, poi, il frutto della pesca dentro i sacchi di iuta e facevano ritorno in paese. Anche loro cercavano di recuperare qualche lira con la vendita della mercanzia, tenendo magari per sé un poco del prodotto per farlo cucinare in casa.
<Articolo originale di Osvaldo Cipollone>

Una replica a “Alla Rafia e ajjo canalo”
Che bello questo articolo nel leggerlo sono tornato indietro di 70 anni. Quanti bagni facevamo alla rafia in estate e al fiume Imele vicino Corcumello , la spensieratezza di quegli anni era una gioia.