[Storia delle Cese n.39]
da Lorenzo e Osvaldo Cipollone
Il termine “università” non deve trarre in inganno per l’attuale accostamento con le “università degli studi”. “Universitas” è infatti il termine che generalmente indicava i comuni dell’Italia meridionale, sorti già sotto la dominazione longobarda e successivamente infeudati con le conquiste dei Normanni. La loro evoluzione storica è differente rispetto ai “liberi comuni” sorti nell’Italia centro-settentrionale nel Medioevo. Più in generale la “universitas civium” o “universitas loci” era conformata come “uno specifico ente collettivo che si autogoverna entro certi ambiti e con determinati poteri tradizionali, in dipendenza da un’autorità superiore di varia natura (regia, feudale, cittadina) con la quale contrattava in occasioni ordinarie o straordinarie (dedizioni, rese, passaggi di signoria o di dinastia) sia la propria costituzione, sia le modalità, e talvolta anche la consistenza, delle proprie contribuzioni in denaro e in servizi”. L’amministrazione di una “università” era affidata a pubblici ufficiali scelti fra gli abitanti, ad esclusione di chierici e nobili. In carica per un anno, essi erano competenti o per la parte finanziaria o per quella giudiziaria[1].
Durante il dominio di Federico II si usava il termine “comune”, mentre dopo il 1268 Carlo I d’Angiò lo mutò appunto in universitas, ordinando la distruzione dei sigilli comunali. Le universitates sopravvissero sino all’abolizione del feudalesimo, avvenuta con decreto del 2 agosto 1806, ad opera di Giuseppe Bonaparte.
Anche Cese ha mantenuto un’amministrazione con atti delibere proprie fino all’entrata in vigore del Catasto Napoleonico. Successivamente il paese venne accorpato, insieme a quello di Capistrello, ad Avezzano, che raggiungeva così i 4.130 abitanti. Da allora Cese, già Università autonoma, è diventato una frazione (la più antica) dell’altro comune, che ha perso per strada quello di Capistrello[2]. Degli antichi atti dell’Università delle Cese esistono solo alcuni documenti, il più prezioso dei quali è probabilmente il “Libro dei Consigli” che riporta le deliberazioni assunte tra il 1777 ed il 1798. Un altro documento storico di grande rilievo è il Catasto del 1754. Nel titolo si legge: “CATASTO Formato dall’Università delle Cese con ordine della Maestà del RE CARLO ns.o Sig.re (Dio guardi), compìto e pubblicato, in conformità delle Reali Istituzioni, sottoscritto dagli odierni Amministratori, e Deputati ad Avezzano eletti, e munito del pubblico sugello, in Fede – nelle Cese li 28 Febbr.° 1754”. Nello stesso si ritrova anche un importantissimo timbro che riproduce lo stemma della “Università delle Cese”, con un chiaro riferimento alla Madonna delle Cese con il Bambino in braccio. D’altra parte l’adozione di un’immagine sacra (la Madonna o il Santo protettore) come simbolo della propria autonomia dal potere baronale è comune a tantissimi agglomerati locali (Sante Marie, Massa, Avezzano ecc). I dettagli stilistici dello stesso sigillo sono desumibili da un altro un atto, risalente al 1773, con cui i due massari, Giacomo Corradini e Giovanni Micocci (cancelliere Vincenzo de Amicis), certificavano al Vescovo i cittadini meritevoli[3]. Lo stemma ellittico raffigura, su uno sfondo verde, la Madonna delle Grazie aureolata, a metà busto, vestita d’argento e mantellata d’azzurro, con il Bambino benedicente, anche lui aureolato, sul braccio sinistro. L’aureola della Vergine porta la scritta “Ave Maria Gratia Plena” ed è sormontata da una crocetta.
Un ulteriore documento in cui viene esplicitato il riferimento alla Università delle Cese è quello riportato da Fulvio D’Amore in una pubblicazione su “Capistrello”[4], nella quale si legge: «Nel tentativo di superare la vecchia vertenza del legnatico con Avezzano ed appianare i contrasti in atto il 26.11.1732 don Berardino Orlandi, regio giudice a contratti, il magnifico Orazio Caetani e Raimondo Ruzza affittarono all’università di Cese e dettero l’assenso dello “Jus legnandi”” nella montagna denominata le Coste dell’Ovito”, per la somma di ducatí 20. Il contratto fu stabilito dai massari Giuseppe Carpineta e Gioacchino Stati ed i limiti del territorio entro i quali la popolazione di Cese poteva raccogliere legna, furono: “Dalle Colonnette, seu (ossia) termini verso Corcumello, come Acqua Pende, linea retto dei Vallone della Lega della Vedova». L’autore, nelle pagine successive dello stesso testo, ritorna sull’argomento trattando la risoluzione del problema fra l’Università di Cese e quella di Corcumello, e fra quest’ultima e le altre università vicine.
I più piccoli di questi vecchi “comuni”, poi diventati “università”, sarebbero stati in seguito ridotti a semplici “riuniti”, antesignani delle moderne “frazioni”.
[1] L’ordinamento delle varie universitates aveva alla base un’assemblea formata dai capi famiglia più nobili o più degni che ogni anno eleggeva un Consiglio, composto da un numero di membri che variava a seconda della popolazione. Fra i membri del Consiglio si nominavano i Syndici (syndicus = sindaco) o eletti, fra cui un erario licteratus (un rappresentante che doveva saper leggere e scrivere). Numerose erano poi le altre cariche e le diverse magistrature cittadine: per la determinazione di pesi e misure, per l’amministrazione della giustizia, per la sicurezza dei cittadini, per la manutenzione delle strade, delle mura e delle porte. In tutti i casi, era comunque previsto un controllo esterno: l’amministrazione della Giustizia era supervisionata dal Giustiziere provinciale, quella finanziaria era sotto la responsabilità dei capitani del re che si occupavano anche di assicurare l’ordine pubblico.
[2] Con la legge del 4 maggio 1811 fu deciso che i comuni più piccoli, quelli cioè che non erano in grado di provvedere autonomamente al proprio finanziamento, dovevano essere “riuniti” in un comune più grande, denominato perciò “centrale”.
[3] I nomi riportati erano quelli di Don Carlo Tomei, Don Giuseppe Tomei, Don Francesco Canonico Marchionni, Don Domenico canonico curato De Amicis, Don Angelo canonico Cipollone, Pientrantomio Pace e Rocco Cataldi. Nell’attestazione si faceva notare, inoltre, che il canonico Don Filippo Cipollone era assente poiché si era trasferito ad Anticoli, nello Stato Pontificio.
[4] Fulvio D’Amore, Giuseppe Grossi, “Capistrello. Storia, Arte, Archeologia”, 2000.
<Rielaborato da O.Cipollone, “Orme di un borgo” (2002) e “La Voce delle Cese” numero 87>





