[Storia delle Cese n.38]
da Osvaldo Cipollone
Solitamente era nella sera del 10, vigilia di San Martino, che il paese respirava un’aria insolita, ed i vicoli, le cantine e le abitazioni vivevano a pieno l’euforia del momento. La gente, come d’incanto, si rallegrava d’entusiasmo; anche il mosto, prossimo a diventare vino, sembrava impaziente. Profumi diversi e sapori già allora antichi aleggiavano sul “borgo”, mentre le ultime bollicine, tracimando dalle botti, rincorrevano il fumo dei caminetti accesi. Arrivava poi il momento di spillare il vino nuovo, e proprio per tale evenienza venivano ricavate “spine” (da cui spigna’) nella parte superiore delle botti. Dal forellino il frizzante “cerasuolo” si tuffava nelle “bbocalétte”, use al sorseggio e propense a risollevare le membra affaticate. I giovani, invece, visitavano a gruppi le cantine della comitiva, inebriandosi di euforia più che di alcol (il giovane vinello anche “da grande” avrebbe superato a fatica i 10 gradi). Prima della tradizionale data di San Martino, qualcuno si accontentava di bere anche il raspato (acquata o ciripìcchia), derivato da raspi, bucce, mosto ed acqua, messi a fermentare solo per una settimana.
I più piccoli, con rituali e simbologie che oggi vengono associate anche ad halloween, girovagavano allegri per il paese. Le zucche, opportunamente svuotate, intagliate ed illuminate, rincorrevano giocose le stesse ombre dei ragazzi. Si sentivano frastornate dall’accompagnamento sordo di un vecchio campanaccio e dal canto stridulo di: “San (fra’) Martino, campanaro…”.
A volte qualche buontempone, sbruffando l’acre fumo del sigaro e ricordando l’accostamento – giusto o sbagliato che fosse – a protezione dei mariti traditi, indirizzava gli “sprovveduti” fanciulli verso le abitazioni degli uomini tacciati di tale sventura, seppur per gioco. E addio doni e dolcetti! Semmai minacce e busse, non certo ugualmente digeribili. Gli uomini s’incontravano in piazza per quattro chiacchiere e altrettanti bicchieri, con in testa la coppola che riparava dalla brezza novembrina. Chi non voleva sentir dicerie sull’onestà della propria moglie la portava, come da consuetudine, inclinata (“‘ncantata”) da una parte, come a smentire ogni maldicenza sul proprio conto. La leggenda racconta che una volta, prima di uscire, un uomo del paese avesse chiesto conferma alla propria moglie sulla posizione del copricapo, venendone prontamente rassicurato dalla finestra. Voltatosi di nuovo, l’uomo volle salutare la donna rilanciando lo stesso quesito: «Allora pòzzo i’ co’ lla coppola ritta?». “Şcì va’, va’ tranquillo’”, confermò la donna. «Proprio tranquillo?» replicò lui. E lei di rimando: “Se non te sénti tanto tranquillo, allora sa che ffa’? Daccilla ‘na ‘ncantatèlla!”…
Immancabile a San Martino era la preparazione della pizza summa (azzima), che veniva cotta sulla base del camino, sotto ajjo cóppo. Nell’impasto (che non veniva fatto lievitare) fatto con farina bianca, acqua, sale ed un pizzico di bicarbonato, le mamme nascondevano una moneta di modesto valore e spesso, una volta a tavola, “pilotavano” amorosamente la “pesca” affinché la sorte baciasse il più piccolo della famiglia; altrimenti ci si affidava al caso. Il fortunato, oltre alla monetina, guadagnava l’opportunità di scegliere un menu di proprio gradimento per il giorno successivo, sebbene la promessa non potesse esser sempre mantenuta. Delle celebrazioni religiose dedicate al Santo non si ha traccia, ma non è escluso che le funzioni religiose in onore di San Martino venissero celebrate senza eccessiva risonanza, in linea con la figura di un Santo generoso e magnanimo, che aveva vissuto sempre accanto ai poveri ed agli umili.
L’episodio più noto della sua vita ebbe infatti luogo in una piovosa giornata autunnale: mentre Martino, ancora soldato, si trovava alle porte della città di Amiens, incontrò un mendicante seminudo e tremante. Impietosito dalla scena, sfoderò la spada, tagliò il suo mantello di lana e ne diede la metà al pover’uomo; poi si rimise in marcia con il suo cavallo. Compiuti, però, solo pochi passi, il tempo mutò radicalmente: la pioggia cessò, le nubi si diradarono e fece la sua comparsa il sole che, ben presto, contribuì a mitigare l’aria, tanto che Martino fu costretto a togliersi di dosso la parte del mantello che aveva lasciato per sé. Da questo episodio prende spunto la tradizione secondo la quale nei giorni prossimi all’11 Novembre, tutta l’area del Mediterraneo è interessata da un breve periodo di tempo bello e tiepido (“l’estate di San Martino”), nonostante la stagione autunnale sia già piuttosto avanzata.
Il Santo viene festeggiato – solitamente il giorno antecedente la data – da rumorose compagnie festanti, che spesso organizzano veri e propri “cenacoli”, secondo una tradizione piuttosto antica. Già nel 1879, infatti, l‘antropologo Antonio De Nino riportava nel suo “Usi e costumi abruzzesi” una testimonianza diretta della consuetudine, con particolare riferimento al paese di Tagliacozzo. Scriveva De Nino: “In qualche paese dei nostri, per esempio a Tagliacozzo, nella festa di san Martino, si è più positivi, senza rinunziare alla tradizionale baldòria. Dunque non v’ è la baccanale processione; vi sono, invece, i cenacoli. In varie case del paese si fanno cene in comune, a gloria di san Martino. […] Così i bontemponi si dividono in cinque o sei gruppi. Dopo la cena ciascuno paga lo scotto. Entro in un cenacolo. Tutto quello che vedo, è una cornatura; lampadari composti di corni; vasi cinti di corni; fruttiere abbellite di corni; per candeliere un corno dritto ; intorno alle pareti, ghirlande di corni storti; alcune vivande a foggia di corna; insomma, ripeto, è una intera cornatura. Ogni tanto gridi e cachinni, tra un continuo cornacchiare e cornamusare. A fin di tavola, sempre una porchetta arrosto”.
A Cese, più che di “cenacoli” fissi, si poteva parlare di “assaggi” presso diverse cantine. Come raccontano i più anziani, infatti, i vari gruppetti giravano per le cantine “amiche” e controllavano le botti che ribollivano meno e, anche se non erano ancora passati i proverbiali 40 giorni di fermentazione, “caccévano a beve” ugualmente. La pizza summa si accompagnava con la verdura (si usavano soprattutto le rape) e, visto che in zona non si trovavano castagne, qualcuno andava con il carretto fino a Sante Marie o in altri paesi e le “scagnéva” con prodotti della campagna, soprattutto patate o granturco, spesso “presi in prestito” agli ignari genitori.
<Tratto da “La Voce delle Cese”, edizione speciale 11 novembre 2006, arricchito da ricerche personali>

