[Storia delle Cese n.36]
da Osvaldo Cipollone
La “’ncioccata” rievoca una situazione del passato dal forte richiamo simbolico. Come facilmente intuibile, il termine deriva da “ciocco”, ossia grosso pezzo di legna da ardere, tradizionalmente legato alla sera di Natale, quando si utilizza(va) per riscaldare, assieme alla casa, anche il Bambinello.
In un tempo in cui predominavano i silenzi, anche i rapporti tra giovani erano riservati, e anche per questo i ragazzi erano portati ad escogitare sistemi alternativi per dare spazio alle proprie intenzioni. La “’ncioccata”, in particolare, sottintendeva frasi ancora non dette e sentimenti non manifestati. L’aspirante fidanzato pianificava ogni cosa e, coinvolgendo gli amici, di notte andava ad accostare un ciocco presso l’abitazione della giovane scelta per fidanzata, allontanandosi poi in silenzio. I primi a notare il ceppo sull’uscio erano solitamente gli allevatori e i contadini che di buon mattino uscivano di casa. Nel vederlo, capivano che la notte c’era stato un certo movimento e facevano magari le prime supposizioni sui possibili autori. Nello specifico, ovviamente, erano i familiari stretti i più interessati. Capitava spesso che, uscendo di casa, scostassero il ceppo con malcelata indifferenza. Il padre della ragazza acquisiva subito informazioni più precise in paese, fermando giovani ed altri compaesani per chiedere: «Sapissi chi è stato a ’nciocca’ la figlia me’?».
Dopo pochi tentativi, il genitore risaliva facilmente all’autore del gesto e, consultata la famiglia, adottava la decisione ritenuta più opportuna. Se l’aspirante fidanzato era gradito, portava il ciocco all’interno della casa; in caso contrario lo allontanava, come per rimandarlo al mittente. In alcuni casi si creavano anche equivoci e fraintendimenti dovuti, per lo più, ad informazioni improprie o a scambi di persona. Poteva accadere, infatti, che le indicazioni non fossero veritiere o che riguardassero un altro componente della famiglia del ragazzo. Quando veniva riferito, ad esempio: «È stato il figlio del tale!», l’indicazione poteva essere di dubbia interpretazione, anche perché al tempo i figli erano numerosi. Ad ogni modo, erano le fasi successive del rituale a fugare eventuali dubbi. Se infatti sorgevano problematiche dopo la “’ncioccata”, queste venivano appianate quasi subito per non compromettere l’onorabilità delle due famiglie. In caso contrario, lo “smacco” sarebbe stato un segno indelebile sulle future relazioni di entrambe le parti.
Se l’esito della “’ncioccata” era positivo si passava alle fasi successive dell’avvicinamento. Il giovane interessato si appostava ripetutamente, nei pressi dell’abitazione o in altri luoghi noti, per incrociare lo sguardo della ragazza, e quando riusciva nell’intento le faceva l’occhiolino: “j’occhitto”, appunto. Il segnale era un gesto convenzionale che sottintendeva un’intesa da consolidare. Poteva accadere lungo le strade di campagna, durante il pascolo o quando le ragazze raggiungevano i familiari nei campi per portare loro il pasto. Ma poteva aver luogo anche nelle fugaci uscite serali, quando le giovani si recavano alla fontana pubblica per attingere acqua. Se durante questi sporadici approcci le intenzioni colpivano nel segno, i due potevano scambiarsi anche un timido saluto e, se lontani da occhi indiscreti, potevano perfino parlarsi. Se poi le occasioni d’incontro erano gradite ad entrambi, allora si escogitava qualche “furberia” per consolidare il legame. Le ragazze, ad esempio, potevano rovesciare l’acqua dalla “conca” per doverla riempire subito di nuovo. Di solito ripetevano l’escamotage più volte, fino a quando non scorgevano il corteggiatore che si avvicinava. Tornando a casa, poi, giustificavano il ritardo affermando che in quel momento c’erano molte persone a far la fila alla fontana. Tutto questo accadeva poiché gli episodi in cui i genitori consentivano incontri tra ragazzi e ragazze si riducevano a rarissime occasioni.
All’epoca, infatti, anche i pochi balli scanditi dal suono dell’organetto erano accompagnati dalla presenza dei familiari. Laddove, invece, l’intesa era già consolidata, i giovani potevano scambiarsi qualche frase o farsi vedere insieme davanti ad altre persone.
Una delle occasioni di avvicinamento si concretizzava dopo la raccolta delle pannocchie nei campi. Queste venivano trasportate nei magazzini o sotto le tettoie, ed in seguito attorno ai mucchi si sedevano tanti giovani pronti a lavorare per liberarle dalle foglie. L’occasione di spannocchiare “mazzòcche” dava a tanti l’opportunità di passare una serata diversa. Pur non essendo invitati, i giovani accorrevano in massa, allettati dalla presenza di numerose ragazze. Durante il lavoro si cantava, si condividevano racconti coinvolgenti e si recitavano barzellette. Era anche consuetudine che durante tutto il tempo si svolgesse il gioco del “cucuzzàro” con diverse penalità a carico di chi incorreva in qualche errore. Chi sbagliava, infatti, era tenuto a recitare scioglilingua o filastrocche, e poteva ricevere pizzicotti o carezze a seconda dei casi. Se poi, nello spannocchiare, qualcuno si ritrovava tra le mani un frutto color vinaccia (la “mazzòcca roscia”), poteva scegliere di dare un bacio sulla guancia alla persona scelta, o di pronunciare una frase all’orecchio. Il gioco durava parecchio tempo e, prima o poi, praticamente tutti potevano essere protagonisti o “pagare” innocenti pegni.
A fine lavoro venivano offerti dolci e vino; dopo di che, le giovani facevano ritorno a casa rimanendo in gruppo. Spesso, però, le ragazze venivano seguite dai corteggiatori che provavano ad affiancarle. Era forse questo il momento più interessante della serata, quando i più coraggiosi potevano esternare emozioni e manifestare i propri sentimenti.
Un’altra consuetudine del secolo scorso permetteva alle giovani di uscire la sera ed incontrare i coetanei. Erano nello specifico le occasioni in cui si preparava la lana per la sposa a completamento del corredo, quando il vello degli ovini veniva lavorato per confezionare cuscini, “imbottita” e materasso. Era per questo che la famiglia organizzava il rituale. Già disinfettata e lavata, la lana veniva cardata manualmente proprio per i capi indicati. Il delicato impegno veniva assolto con la collaborazione di quasi tutte le ragazze del paese. In epoche antecedenti lo stesso lavoro veniva svolto dai familiari, poi dalle donne del vicinato, dalle amiche della sposa, dalle coetanee ed infine da tutte le giovani della comunità. Naturalmente l’evento richiamava molti giovani desiderosi di socializzare ed entrare in contatto con le ragazze. Agli uomini veniva consentito l’ingresso nel locale solo a lavoro ultimato, quando cioè la materia lavorata era già stata messa da parte. A quel punto, infatti, si passava ai brindisi ed ai balli (se previsti); in alternativa si esibivano cantori ed “artisti” dalle performance più disparate. L’occasione si arricchiva, così, di divertimento e di festosità. Quello era il momento per timidi approcci, confidenze e chiacchiericci pronunciati sottovoce. Poco dopo i familiari della sposa chiudevano i battenti; i numerosi intervenuti lasciavano così l’abitazione, spesso a malincuore. Le giovani non potevano tardare più di tanto, per cui si avviavano repentinamente verso casa. Quelle che venivano convinte dai corteggiatori a trattenersi un attimo, dovevano comunque stringere i tempi. Chi voleva permettersi fugaci trasgressioni lo faceva a qualunque costo. L’occasione, in ogni caso, poteva consolidare rapporti già avviati, originarne di nuovi e concedere anche un pizzico di romanticismo.
<Tratto da Osvaldo Cipollone, “Le nozze di canapa” (2016)>
