Nazario Sauro tra le macerie di Cese

[Storia delle Cese n.8]
da Romano Sauro

Per tutto il tempo che – la mia famiglia ed io – siamo rimasti lì tra Le Cese, Sante Marie e Avezzano, la mia immaginazione e la mia mente erravano riconducendomi a quel triste e lontano 13 gennaio 1915, quando il sisma distrusse la terra della Marsica causando più di trenta mila vittime cancellando decine di paesi e demolendo centinaia di abitazioni. E come fosse un tuffo nel passato, pensavo a mio nonno che soccorreva, in mezzo alla neve alle macerie ai detriti ai cadaveri, quella povera gente così duramente colpita.

Avevo in mente in particolare una fotografia che lo ritraeva in quel villaggio mentre mescola la farina gialla per la polenta e cucina la carne bollita. Dopo i primi soccorsi, infatti, e la costruzione di case per i senza tetto, Nazario aveva deciso di fare il cuoco a beneficio dei sinistrati e dei sessanta soccorritori giunti da Venezia. Era questo evidentemente – pensavo – il suo modo semplice e naturale di rendersi utile per i pochi superstiti che, con il sisma, avevano perso ogni cosa. Quella fotografia che lo ritrae dietro un fuoco da campo acceso e il calderone fumante fece all’epoca il giro su molti giornali italiani. Dopo qualche giorno di lavoro estenuante – raccontava mio padre – i soccorritori riuscirono a tirar fuori, vivi, dalle macerie due bambini.

Sempre in casa sentivo raccontare che tra le varie attività che svolse a Le Cese Nazario Sauro, ci fu anche quella, dolorosa ma doverosa, di seppellire i morti, traendoli soprattutto dalle rovine della chiesa e da molte case crollate. Nonno aveva una voce squillante e amava comandare e, pare, anche lì non fu da meno coordinando nel migliore dei modi tutte le attività di soccorso; ciò nonostante non si tirava mai indietro ed era sempre disponibile a fare qualsiasi lavoro pur di essere utile, dal becchino, al cuoco, al muratore, al falegname. Anche nei momenti più difficili e drammatici, però, cercava sempre di sollevare il morale della gente con qualche battuta. Fu così che, stando a quanto scrisse il giornalista Federico Pagnacco: «Un brodo con quattro galline e un po’ di patate non era un ‘rancio’ bastante; e gli urli e le risate di Sauro erano poveri di vitamine. Finché, e non nei primissimi giorni, il pianto di un contadino che veniva a chiedere aiuto per la sua Bellina – che tutti gli accorsi ritenevano una bambina e invece era una mucca – risolse il problema. Sauro, trovato, nel muggesano Fransin, un macellaio di mestiere… assicurò per giorni il brodo e la carne per tutti».

Da buon calafato e carpentiere che era fin da giovinetto, Sauro costruì sulle rovine della Chiesa delle Cese anche un altare di legno che consentì ai superstiti e agli stessi soccorritori di seguire le funzioni religiose della domenica.

Ho cercato di rammentare nei racconti di mio padre qualche riferimento a quel drammatico evento che fu il terremoto della Marsica. Mi ricordai così che al rientro a Venezia mio nonno aveva portato ai propri figli (Nino, Libero, Anita, Italo e Albania) un regalo a ricordo di quella dura e toccante esperienza.

A Cese accadde, infatti, un episodio, insignificante per molti, ma che riporterà Nazario Sauro, col pensiero, alla propria famiglia. Fu il ritrovamento, in mezzo alle macerie, di un quaderno d’italiano, appartenuto a chissà quale alunno, «che egli voleva portare ai propri figli affinché si esercitassero nell’uso della lingua. Era una sorta di metodo di composizione, scritto dal prof. Primo Guadagno per gli alunni delle prime classi delle elementari dal titolo Vedo-Penso-Scrivo». Casuale e fortuito il ritrovamento fra le macerie, non vi è dubbio. In quella circostanza, il suo pensiero non poteva che correre a suo figlio più piccolo che aveva lasciato a Capodistria e non vedeva da due anni.

Mio padre ha riportato in un manoscritto: «Quante volte si parlò di questo terremoto a casa con papà, il quale ci descriveva l’immane disastro, le case crollate, le scuole distrutte, la desolazione, il dolore. Da allora gli abruzzesi trovarono un posto particolare nel mio cuore e nostro padre ci insegnò ad amare quella generosa gente. Ci portò dal terremoto e ancora ne conservo uno, dei quaderni di scuola che egli aveva trovato tra le macerie; ci portò anche dei gessetti e tutto conservammo con religioso amore e ricordo di quelle tristi giornate che passarono i nostri fratelli di Avezzano. Sicuramente i racconti di mio padre che descrivevano lo strazio di quella gente, di bambini rimasti senza i loro genitori, hanno toccato fin da allora i nostri cuori e ci hanno reso sicuramente più sensibili alle disgrazie umane e quei racconti ci facevano viepiù stringere ai nostri genitori che abbiamo sempre amato appassionatamente. Come possono influire sull’animo dei bambini cose dette dai propri genitori perché viste e vissute! L’aiuto che mio padre donò a quei poveri sinistrati rimase nella nostra mente come la più generosa e notevole manifestazione del nostro genitore; da quello comprendemmo quanto amava il suo paese e l’umanità» [1].

Quel libretto che Nazario Sauro raccolse tra le macerie e tenne con grande cura tra le sue mani in quei giorni tristi e di dolore, ora lo conservo io, ma lo riporterò un giorno ad Avezzano – nel centesimo anniversario del terremoto della Marsica. Si chiuderà così quel cerchio ideale che si è creato nel tempo tra Nazario Sauro, la mia famiglia e la generosa gente abruzzese. Non è solo il pensiero – coinvolto – di un momento, ma forse anche, per lo meno io spero, il sogno ancora inconsapevole di molti abruzzesi. E mi auguro anche delle persone di Cese.

<Liberamente tratto da Romano e Francesco Sauro, “Nazario Sauro – Storia di un marinaio”, 2013>


[1] In LIBERO SAURO, Sotto tre bandiere, manoscritto.

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