La festa

[Storia delle Cese n.3]
da Osvaldo Cipollone

In passato ogni Comitato Festeggiamenti patronali aveva la prerogativa di una singola festa. Vi facevano parte solo uomini (sposati o meno), estratti a sorte fra quelli che risiedevano in paese. L’estrazione avveniva in chiesa, dopo che il parroco ed il consiglio economico (“la procura”) avevano tenuto conto degli ultimi sorteggi.
Solitamente, i gruppi bandistici reclutati per la festa erano quelli con un repertorio fortemente incentrato su partiture di opere classiche. La scelta della “banda” non era sempre condivisa dal gruppo, e le singole preferenze davano spesso luogo a defezioni in seno al comitato. Questa ed altre criticità hanno fatto sì che nel tempo si abbandonasse il sistema del sorteggio e si passasse a comitati spontanei o formati da coetanei.

Le luminarie, il palco e lo “sparo”
Le prime “casse armoniche”, i tipici palchi di un tempo, non avevano sponde di protezione ed erano spesso delimitate da arbusti sempreverdi di bosso (“ji usci”) o di edera. Le luci del palco, così come quelle degli archi, erano alimentate ad acetilene, il cosiddetto “carburio”. Dentro appositi contenitori si mettevano calce, carbone ed acqua, ed un filo collegava i pochi elementi che alimentavano i lampioncini.
A memoria d’uomo, lo “sparo” ha avuto sempre un ruolo importantissimo all’interno dei festeggiamenti. Negli anni di difficoltà economiche si sono magari eliminate altre iniziative, ma le cerimonie liturgiche e lo sparo sono stati sempre conservati. Durante la seconda metà del secolo scorso, i fuochi pirotecnici venivano commissionati a “Baccano”, un professionista dal nome mai più opportuno.
I “botti” erano contenuti in cartocci da collocare in appositi bussolotti metallici. Collegati ad una miccia, venivano “infossati” lungo la “viarella” che porta al Santuario della Madonna di Pietraquaria (in prossimità della chiesetta di San Rocco). Una scelta efficace, che garantiva un’acustica amplificata dall’eco. Successivamente, per ragioni di sicurezza e per facilitare eventuali interventi d’emergenza, per lo sparo sono state scelte zone pianeggianti, come quella in prossimità del campo sportivo.

“Jo palio”
Il “palio” può essere definito come l’antesignano delle odierne lotterie ad estrazione. Per parteciparvi bisognava versare una quota di grano o due di granturco (“’no quarto” o “’no mezzitto”, sottomultipli della “coppétta”), a seconda del numero dei nomi da iscrivere. In palio solitamente c’erano reti, materassi, coperte, sedie e altri beni di necessità, ed alla lotteria potevano partecipare proprio tutti, anche i nascituri con nome già definito.
I foglietti di quaderno con i singoli nominativi scritti a mano venivano inseriti all’interno di un contenitore tipico (la “conca”, di solito). A questi erano aggiunti anche diversi foglietti con il nome del santo patrono festeggiato. Ad uno ad uno, i biglietti estratti venivano fatti cadere da un balcone: roteando leggerissimi in aria come farfalle di carta, diventavano anche motivo di gioco (e gioia) dei più piccoli, che facevano a gara per acchiapparli (aggiungendo così un ulteriore tocco di costume al momento di festa). Il fantasioso rincorrersi e spintonarsi terminava solo quando veniva estratto il nome del santo. Era questo il momento della suspense: nomi estratti successivamente al Santo erano infatti i vincitori dei premi. E così si procedeva fino al termine della lotteria.

I giochi popolari
Durante i due giorni della “festa de settembre” venivano organizzati caratteristici giochi popolari che occupavano solitamente il pomeriggio. Tra questi resistono al tempo il gioco delle “pignatte” e (fino a qualche anno fa) il palo della cuccagna. Per mancanza di “concorrenti”, sono scomparse purtroppo le corse degli asini, che un tempo si svolgevano sul percorso tra la croce delle “Funticélle” e la “Fonte di Giuditta”, punto d’arrivo. Lo scoppio di un fucile dava allora lo start, sebbene qualche somaro si rifiutasse sistematicamente di muoversi, impuntandosi testardamente. Se poi si decideva a partire, era solo per seguire qualche “leggiadra puledra”, spesso destinata alla vittoria.
Singolare era la partita di calcio, che faceva accorrere all’Ara anche adulti e massaie. Così come particolarissima era la gara della “fressóra”, sul cui fondo annerito veniva incollata (con pece fusa) una moneta da staccare con il solo ausilio della bocca. Il gioco a tempo non era di semplice soluzione; per rimuovere il soldo qualcuno vi alitava sopra a lungo, cercando di liquefare il collante. Solitamente ci riusciva solo chi era dotato di perseveranza e… una dentatura pronunciata. Alla fine il vincitore mostrava la moneta agli spettatori tenendola tra i denti, e tutti i concorrenti regalavano grande allegria al pubblico grazie ai volti completamente anneriti, come maschere dalle buffe sembianze.
Anche la gara “dejji maccaruni” era singolarissima ed originale. Il gioco, fra l’altro, permetteva a più di un concorrente di rifocillarsi adeguatamente, magari dopo lunghi e forzati digiuni. I partecipanti dovevano divorare abbondanti porzioni di spaghetti prendendoli direttamente con la bocca e tenendo le mani dietro la schiena. L’abbuffata non risultava affatto indigesta agli stomaci “senza fondo”, ed il volto rosso dei partecipanti chiudeva perfettamente la gara. Altri giochi, seppur meno caratteristici, allietavano i pomeriggi della festa, coinvolgendo soprattutto giovani e bambini desiderosi di vincere qualcosa.

Consuetudini antiche
Durante tutto l’arco della giornata, ma soprattutto nel pomeriggio della festa, singoli, gruppi e famiglie si facevano ritrarre da fotografi ambulanti provvisti di fotocamere a soffietto e flash alimentati a magnesio (che bruciava nell’aria con la tipica fiammata biancastra). I fotografi erano forniti anche di camera oscura e soluzioni per sviluppare i negativi dentro appositi catini; così, dopo qualche ora erano in grado di consegnare le stampe direttamente agli interessati. Questi, prima di farsi ritrarre, spesso “andavano in prestito” del vestito buono; poi, approfittando delle suppellettili portate dal professionista, si mettevano in posa regalandosi foto che testimoniano ancora oggi un’epoca fatta di consuetudini del tutto singolari.
In quel periodo non c’erano le odierne bancarelle di giocattoli e leccornie, e solo in seguito hanno fatto la loro comparsa i venditori di noccioline, lecca-lecca, palloncini, pupazzetti e “cartoccetti” per la “pesca”. Z’a ‘Ndunélla è stata una delle prime a calcare la piazza di Cese, insieme ad altri ambulanti forestieri. Generalmente provenivano da Avezzano, dai paesi della Marsica o da altre località della Valle Roveto, e già dalla sera precedente pernottavano in magazzini di fortuna o nelle stalle del paese. I “ragazzi di ieri” li ricordano con entusiasmo, assieme alle altre tipicità delle feste dell’epoca. Una particolarissima era la ruota che girava sui quattro semi delle carte napoletane e veniva frenata da chiodini infissi nel legno. Era questa una delle attrattive più frequentate, sebbene le puntate (da 5 o 10 lire) regalassero nella maggior parte dei casi solo una mera illusione di successo. Le poste in palio erano infatti riservate per lo più al gestore del gioco che, con sorrisi e modi cordiali, riusciva spesso a svuotare le tasche dei ragazzi, piene solo di speranze.
Nel pomeriggio della festa arrivavano anche i gelati artigianali al gusto di cioccolato e crema, che venivano serviti in minuscole coppette o in coni biscotto. Li preparava “Zio” Domenico con il pittoresco triciclo sul quale era assemblato un cubo metallico colorato, al cui interno trovavano posto anche grossi blocchi di ghiaccio. Il gelataio, per stimolare la golosità degli adolescenti e delle giovani, era solito strillare: «Piangete bimbi ché zio Domenico se ne va». I gelidi blocchi duravano a lungo e venivano forniti anche alle bettole per refrigerare birre, gassose e spume, che venivano per lo più consumate solo in quei giorni di festa.

Ji bicchierini”
A sera, spesso durante uno degli intervalli dello spettacolo musicale, mariti e fidanzati accompagnavano le donne nelle osterie (le “cantine”) per offrir loro un sorso di marsala, anisetta e millefiori in “bicchierini” finemente molati. Gli uomini, di solito, preferivano altre bevande, come birra, vino e passito.
La consuetudine prevedeva di norma anche un’altra formalità, ossia una passeggiata a braccetto lungo il corso addobbato con le luminarie. La singolarità derivava dalla riservatezza tenuta in tutte le altre occasioni; quasi mai, infatti, ci si concedevano passeggiate a braccetto né altre manifestazioni d’affetto in pubblico. L’impianto sociale del tempo non prevedeva comportamenti galanti né esplicite espressioni amorose; anzi, queste erano per lo più considerate sconvenienti e fuori luogo. Durante la sera della festa, invece, gli stessi atteggiamenti conferivano quasi un tono di signorilità alle coppie. Peccato che, appena il giorno dopo, il ritorno alla normalità avrebbe riordinato ruoli e rapporti rimuovendo di fatto quelle singolari libertà.

<Tratto dall’opuscolo “Le feste patronali di ieri e di oggi”, a cura di Osvaldo Cipollone, 2013>

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