I mezzadri, i braccianti, la fatica e l’armonia

[Storia delle Cese n.59]
da Osvaldo Cipollone

In qualche regione d’Italia molto probabilmente esiste ancora un tipo di contratto agrario vigente fino alla metà del secolo scorso anche nella nostra campagna. Parliamo della “mezzadria”, che regolava i rapporti tra proprietari di grossi appezzamenti terrieri ed i contadini che li coltivavano per loro conto; il contratto prevedeva che i due contraenti dividessero in parti uguali il raccolto e le spese per sementi, attrezzi e bestiame da lavoro. Entrambe le parti trovavano convenienza nella stipula: il proprietario ricavava un profitto certo senza preoccuparsi più di tanto, l’altro poteva sostenere la famiglia a costi non esagerati, godendo di una certa tranquillità economica. Il contadino mezzadro era ovviamente in posizione di sudditanza nei confronti del ricco possidente, che spesso si fregiava del titolo di “conte” o del nomignolo “don”. I “padroni” dal canto loro spesso diffidavano dei mezzadri, sospettando presunte appropriazioni di raccolto. Il più delle volte, inoltre, non esisteva un rapporto diretto fra loro, in quanto ogni incarico era demandato al fattore. Costui organizzava la produzione dei singoli poderi sorvegliando da vicino sull’operato di mezzadri e braccianti. Nei pressi dei casolari sparsi in campagna si sviluppava una considerevole attività economica, vuoi per il lavoro che forniva la tenuta, vuoi per varie professioni che ruotavano intorno all’azienda.

Nei Piani Palentini questo tipo di contratto era presente, ma a Cese il ruolo della mezzadria è stato marginale. In qualche raro caso si è affermato mutando la propria natura: il riferimento è, in particolare, a due “vitalizi” che assicuravano una rendita costante ai proprietari. Tali accordi vennero stipulati a loro tempo da “don” Alisandro Vetoli e da “dun” Giuanni Saturnini. Nel circondario, invece, la mezzadria è stata utilizzata dai vari Vetoli, Masciarelli, Di Clemente, Placidi ed altri proprietari di vaste tenute con annesse case coloniche, stalle, granai, cantine, forni, pozzi ed aie. Era qui che mezzadri, coloni e braccianti coltivavano ortaggi, uva, grano, granturco, foraggi, erba medica, legumi e frutta. Intenso era, inoltre, l’allevamento di ovini, suini e pollame, oltre a buoi, mucche ed equini. Di norma il “fattore” si trasferiva con la propria numerosa famiglia nella casa colonica per seguire queste attività. I figli attendevano al pascolo, gli adulti al lavoro nei campi e le donne alla casa. Qui filavano, tessevano, cucivano, preparavano il pane, accudivano i figli, collaborando nella stalla ed in campagna.

A Cese era predominante l’attività di bracciante, che riguardava il lavoro a giornata; vi ricorreva per lo più chi possedeva poca terra o non l’aveva affatto. Questi lavoratori di norma venivano pagati in natura; infatti veniva loro corrisposta una “coppetta” di granturco (circa 10 Kg) per una prestazione che iniziava prima che sorgesse il sole e si concludeva dopo il tramonto.

Molti emigranti “americani” di ritorno hanno investito i propri risparmi nell’acquisto di terreni. Costoro prestavano grano, mais, legumi, farina e danaro a chi ne faceva richiesta. In cambio pretendevano faticosa manodopera, a sicuro vantaggio proprio. In qualche caso la consuetudine è sfociata in vero e proprio profitto. La miseria, elemento caratterizzante di alcuni periodi storici, ha fatto sì che il problema si acuisse anche da noi, anche perché i debitori non avevano altro mezzo a cui far ricorso se non quello della prestazione di manodopera; d’altronde dovevano anche gratitudine a chi, in qualche modo, era venuto loro incontro.

Ciò nonostante è da considerare un aspetto molto interessante relativo alla vita nelle nostre campagne. Qui infatti, fino alla metà del secolo scorso, regnava un’atmosfera goliardica e gioiosa. Le attività, seppur dure e frenetiche, erano condotte in maniera armonica, festosa e forse inconsueta al giorno d’oggi. Pur con i problemi contingenti dell’epoca, con la scarsità di macchinari ed utensili, l’artigianalità e la modesta efficacia del lavoro svolto, i risultati erano quasi sempre apprezzabili. La vita che prosperava nei campi, a detta di chi l’ha vissuta direttamente, era dura, ma pregevole ed in qualche modo “speciale”. Non sarebbero sufficienti libri di storia per farla rivivere a pieno, né scene rivisitate per prospettarla ai posteri. Donne con vestiti colorati, abbronzate e sorridenti che recavano canestri di vivande in testa. Uomini dalla forte tempra, gioiosi come provetti menestrelli ad intonare fraseggi estemporanei. Ragazzi energici che facevano piroette e corse al pari di saltimbanchi e giocolieri fra i covoni mietuti e le giumente al pascolo. Intere famiglie che, seppur nella comprensibile stanchezza accumulata, erano capaci di allegria, sorrisi, canti e balli, anche a sera inoltrata. L’aria salubre e tersa profumava di festa e la gente trasudava voglia di vivere e di fare. I rapporti interpersonali, eccetto rari casi, erano magnifici; l’altruismo e la solidarietà caratterizzavano la gran parte delle persone. La gente era votata a dare una mano prima di riceverla e l’armonia contrassegnava le giornate lungo le strade sassose, i viottoli polverosi, le stoppie aride e le aie affollate di operosità. Un quadro che non è un fantasioso idillio bucolico, ma una parte importante della nostra storia; quella scritta solo ieri dalla gente di Cese.

<Tratto da un articolo pubblicato su “La Voce delle Cese” numero 9 (2007)>


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